di Alberto Vito e Andrea Cappabianca
Con-Vivere
Sono trascorsi alcuni mesi da quando il nuovo Coronavirus è entrato a far parte delle nostre vite, e solo di recente abbiamo iniziato a sperimentare la vera e propria fase della convivenza con il rischio di contrarre l’infezione.
Dallo spaesamento iniziale, in cui vigeva la rappresentazione incerta di un virus poco conosciuto, siamo passati in poche settimane alla fase dell’isolamento, che aveva l’obiettivo di contenere la pandemia ed evitare che il Covid-19 prendesse il sopravvento sulla capacità del Sistema Sanitario di farvi fronte.

Tale intervento ha di conseguenza posto una linea di demarcazione netta, un limite, tra lo spazio dell’epidemia, rappresentato dall’incontro con l’altro nel mondo esterno, e quello della propria abitazione, dove vivere abbastanza al sicuro, lontano da ogni rischio. Durante il lockdown abbiamo vissuto il vuoto, la noia, la piena convivenza con i nostri familiari, in una situazione che ha fatto da cassa di risonanza anche a emozioni spiacevoli. L’essere sottoposti a un cambiamento repentino e forzato delle nostre abitudini, unito all’inevitabile senso di timore e precarietà, potrebbe aver provocato delle conseguenze psicologiche nel medio termine.
Ci sono state ovviamente delle situazioni di maggior rischio: la presenza di relazioni familiari conflittuali, di difficoltà economiche, di situazioni abitative precarie o inadeguate.
Ci sono poi quelle persone con fragilità, che hanno dovuto interrompere trattamenti riabilitativi e relazioni terapeutiche importanti.
Se interpretiamo il vissuto dei bambini, si pensi per esempio ai figli unici, che per circa tre mesi non hanno avuto relazioni con i coetanei.
In cambio di tali restrizioni tuttavia, abbiamo potuto godere di una sensazione di sicurezza in uno spazio che, seppur limitato, è stato possibile tenere abbastanza sotto controllo. Rivivendo le emozioni di questo periodo, ricorderemo che, accanto al timore di uscire o a quello del vuoto esistenziale dato dall’incertezza del futuro, abbiamo potuto contare sulla presenza di uno spazio sicuro in cui piangere, giocare, arrabbiarsi anche, tenendo in ogni caso il pericolo alla larga.
In questa fase invece, seppur con gradualità, stiamo sperimentando la vera e propria convivenza con il virus. Abbiamo iniziato a uscire di casa, a recarci a lavoro o dalle persone care, riappropriandoci di una libertà sempre più ampia e pagando lo scotto di una certa dose di timore.
Questo perché ci troviamo di fronte a un virus difficilmente identificabile, che stimola una percezione dell’Altro (i passanti, i colleghi, persino gli affetti più cari) come potenziale minaccia.
Il Covid-19 è un rischio difficile da confinare in quanto mancano i cosiddetti segnali di pericolo che ci permettono di capire quando prestare attenzione e quando rilassarci, con il rischio di vivere in un costante stato di tensione. Per tale ragione, sia a livello istituzionale che personale stiamo tutti mettendo a punto diverse misure di sicurezza: dalle mascherine ai plexiglass, alle visiere, alla disinfezione costante delle mani e delle superfici. Tali comportamenti sembrano avere un doppio ruolo: da un lato ci permettono di tenere alla larga l’infezione, dall’altro ci aiutano a tutelare la sensazione di essere al sicuro. In tal senso, assumono anche funzione di protezione dall’ansia.
L’ansia, come i suoi derivati, è molto collegata alla percezione del rischio. Dopo il vuoto dell’isolamento sicuro ci confrontiamo con un pieno di rischio e angoscia in cui la demarcazione tra l’ambiente esterno, pericoloso, e quello interno, sicuro, viene messa in discussione. Ci stiamo rendendo conto che non è più possibile chiudere la porta di casa e lasciare il pericolo alle nostre spalle. Alcuni paventano di creare una zona cuscinetto o dei percorsi sporco/pulito dentro casa, mutuando le efficienti pratiche di contenimento degli ambienti sanitari.
Con il rientro alla vita sociale, ci confrontiamo con un duplice rischio: il rischio biologico di contrarre l’infezione, e il rischio psicologico dato dalla difficoltà a identificare e confinare il pericolo e a tutelare gli spazi di sicurezza.
In questa condizione sembra dominare l’ansia del controllo, il timore di aver contratto il virus e di poterlo trasmettere alle persone che amiamo, la paura che queste possano essere state contagiate. Come si inseriranno questi aspetti nella dinamica di coppia o familiare? Come reagirà chi aveva una pregressa condizione ansiosa? Come potremo, in quanto psicologi, considerare la già labile e discussa demarcazione tra comportamenti sani e comportamenti patologici?
Pensiamo al continuo lavaggio delle mani, una volta indiscusso sintomo clinico, o all’isolamento sociale, che è passato dal rappresentare una psicopatologia a divenire la condizione imprescindibile per la tutela della salute propria e degli altri.

Il nuovo Coronavirus sta cambiando il nostro modo di percepire la realtà, mettendo per certi versi in discussione anche le rassicuranti categorie diagnostiche cui ci siamo affidati fino a ora. Chissà se in questo difficile adattamento le misure di prevenzione basteranno a tutelare spazi di sicurezza sia a livello intra che extrapsichico, in modo/così da arginare l’ansia legata a tutto ciò che evoca la pandemia.
Sarà fondamentale mantenere una certa centratura nei confronti dell’infezione, evitando comportamenti irrazionali che non aiutano affatto a proteggerci, ma che al contrario hanno il solo effetto di alimentare lo stato di malessere.
Il consiglio è di non sentirci passivi. Il nostro stato emotivo in realtà non dipende dal virus o dal distanziamento sociale, ma dall’incontro della realtà esterna con la nostra personalità e il nostro mondo interiore. Ciò significa che non siamo inermi: possiamo modificare le nostre modalità di reazione scegliendo i comportamenti che riteniamo più utili. Se è vero che è difficile cambiare le emozioni, è però possibile cambiare i pensieri e i comportamenti. Occorre scegliere pensieri alleati e utilizzare il tempo in modo produttivo e piacevole, compatibilmente con i limiti esterni.
Alcune di queste risposte sono ipotizzabili a partire dall’esperienza di chi ha contratto il virus e ha affrontato il tortuoso percorso che lo ha condotto alla guarigione. Così come il plasma dei guariti potrebbe aiutare i contagiati, anche conoscere la loro esperienza di malattia potrebbe aiutarci a capire quali strategie mettere in campo per prevenire effetti negativi sulla salute psicologica, per poter assicurare una migliore tutela del paziente e dei suoi familiari.
Dalle prime esperienze svolte da alcuni di noi sul campo, in particolare all’UOSD di Psicologia Clinica degli Ospedali dei Colli che include anche il polo infettivologico del Cotugno, sembra che aver contratto il Covid-19 impatti fondamentalmente sulla sfera relazionale dell’individuo.
Ne è prova il fatto che in alcuni casi l’assistenza psicologica ai pazienti Covid prosegue anche dopo le loro dimissioni, attraverso consulenze a distanza che si protraggono nel periodo successivo al ricovero. Questo perché a volte i pazienti continuano a star male anche se il pericolo è scampato, in una sorta di malessere indotto dall’aver vissuto una situazione di forte stress.
Nel percorso di cura psicologica proponiamo loro una metafora sportiva: come un atleta riesce a correre fino a quando è impegnato a raggiungere il suo obiettivo, e avverte la stanchezza solo dopo aver superato il traguardo, così dal punto di vista psicologico è comprensibile che, a pericolo scampato, riflettendo sull’esperienza di un ricovero ospedaliero che a volte dura perfino 35-40 giorni, le persone avvertano lo stress accumulato e rischino di crollare.
Ci sono persone con cui le telefonate di sostegno psicologico sono addirittura aumentate dopo il ritorno a casa. Ad esempio, c’è una signora che durante il ricovero diceva di star bene e di non necessitare di alcun supporto psicologico, mentre ora è lei a chiamarci tutti i giorni, perché dice di essere molto spaventata e di aver bisogno di consigli. In ospedale si era creata l’immagine mentale di essere all’interno di un sommergibile, e ciò la faceva sentire protetta dal rischio di contagio. Era ovviamente consapevole che si trattasse solo di un pensiero dalla funzione rassicurante. Tuttavia, una volta dimessa, non riesce più a uscire dal sommergibile, racconta difficoltà a riappropriarsi della sua casa, ed è molto spaventata nell’avvicinarsi alle figlie.
In genere, il disturbo più frequente è l’insonnia, con un’alterazione del ritmo sonno-veglia. Solo in pochi casi compaiono difficoltà maggiori.
L’esperienza più dolorosa e toccante anche per noi operatori è stato l’accompagnamento dei familiari che hanno subito il decesso di un loro caro. Noi psicologi diciamo che ogni malattia importante è sempre una malattia familiare, sia perché investe i parenti, che vivono a loro volta una condizione di forte stress, sia perché essi sono sempre la risorsa più importante. Quindi in genere proviamo a prenderci cura di tutto il sistema familiare. Ma in questo caso, fuor di metafora, si sono ammalati davvero interi nuclei familiari: genitori e figli, fratelli e sorelle, coniugi. Fra i tanti aspetti specifici della patologia da Covid-19, è forse questo il più significativo dal punto di vista psicologico, laddove il timore per la propria salute è amplificato da quello per i propri cari.
Quel che i ricoverati ci hanno riferito è che la separazione familiare, più che l’isolamento in sé, è stata la dimensione più difficile da accettare.
La fonte di maggior disagio si è concretata proprio nell’impotenza, nel non poter far nulla in un momento di difficoltà delle persone che si amano, nel desiderio di partecipare proprio quando invece si è costretti a essere separati. Tutto ciò sapendo che a casa, o finanche nello stesso ospedale, ci sono i propri genitori o il proprio coniuge, e di non poter essere d’aiuto.
Uno dei casi più intensi è quello di un paziente, un professionista di età media, con problemi iniziali seri e progressivamente migliorati, a cui bisognava comunicare la morte dell’anziano genitore, al quale era legatissimo, avvenuta in ospedale.
Sono stati momenti molto toccanti. Da casa, subito dopo che la moglie gli aveva comunicato la triste notizia, abbiamo avuto un lungo colloquio telefonico. È stato un incontro tra voci, lo psicologo era uno sconosciuto, tuttora ci è ignoto il viso di questa persona, che ha scelto di aprirsi raccontandoci momenti importanti della sua vita narrando della sua famiglia, degli insegnamenti ricevuti e della sua devozione filiale. Si è creata così una vera intimità. Pochi giorni dopo il paziente ha incontrato la valente infettivologa che aveva assistito il padre. I due, non come medico e paziente ma da persone, hanno pianto insieme. Ascoltare il racconto delle ultime ore di vita del padre, conoscere da chi e come è stato assistito, è stato molto importante per sostenere il paziente ad avviare l’elaborazione del lutto. In seguito ci siamo sentiti più volte, promettendoci di incontrarci, nelle prossime settimane. Numerosi pazienti hanno chiesto di poterci incontrare in futuro, sia per dare un volto a quella voce amica, sia per proseguire l’eventuale percorso psicologico.

Alberto Vito psicologo-psicoterapeuta direttore del reparto di Psicologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera dei Colli

Andrea Cappabianca, psicologo e psicoterapeuta, libero professionista