Il 21 giugno si è tenuta la presentazione del libro Ragazzi che sparano, viaggio nella devianza grave minorile presso la sede del Comitato Regionale della Croce Rossa a Napoli in via San Tommaso d’Aquino. Il libro, scritto da Maria Luisa Iavarone e Giacomo Di Gennaro, edito da Franco Angeli, tratta la grave tematica della delinquenza minorile con particolare attenzione all’uso delle armi da parte dei giovanissimi.
Lo studio è sulla città di Napoli che, purtroppo, riveste il triste primato di essere la prima città in Europa per il tasso di delinquenza minorile. Alla presentazione hanno preso parte gli Autori, il giornalista Carlo Negri che ha anche svolto la funzione di moderatore, il Presidente Regionale CRI Campania Stefano Tangredi, il Garante per i detenuti Regione Campania Samuele Ciambriello e la giornalista, criminologa e vittimologa Cristiana Barone.
Il giornalista Carlo Negri, ha precisato che il testo è il frutto della collaborazione tra due atenei universitari diversi con il coinvolgimento per le interviste presso l’IPM (Istituto Penitenziario Minorile) di alcuni professionisti delle due Università. Non è semplice presentare un libro del genere perché è molto impegnativo, è un manuale e potrebbe essere tranquillamente un testo universitario in quanto è una ricerca metodologica sulla città di Napoli in cui si registra un forte allarme sociale quale è l’uso di armi da sparo da parte dei minori.
Il presidente Stefano Tangredi sottolinea come il testo presentato sarà una utilissima guida per i volontari di Croce Rossa, che non è soltanto primo soccorso come molti pensano. Nel grande contenitore dell’Associazione ci si adopera anche per l’inclusione sociale e di recente è stato redatto un protocollo con il Dipartimento per la Giustizia Minorile nel quale è stato creato un pacchetto di formazione per i volontari perché c’è la convinzione che per lavorare presso i loro sportelli sociali e svolgere consapevolmente le attività sia necessaria una formazione più adeguata e quindi sono stati intrapresi vari percorsi per parlare proprio di devianza minorile.

Di seguito le interviste realizzate prima dell’inizio della presentazione.
Maria Luisa Iavarone, è ordinario di Pedagogia Sperimentale presso l’Università degli Studi di Napoli Parthenope dove coordina il Corso di Laurea LM-50/93 in Progettazione dei servizi educativi e formativi, Media Education e Tecnologie per l’Inclusione nei contesti formali e non formali.
La prima domanda è di tipo personale perché riguarda l’episodio del 18 dicembre 2017 di cui suo figlio è stato vittima. Nel libro voi autori mettete in rilievo come la famiglia rivesta un ruolo fondamentale non tanto per l’educazione quanto per la negligenza della cura educativa, cioè il mancare come punto di riferimento per i figli. Allora le chiedo come ci si può sforzare di esserlo in ambienti in cui è il degrado a essere predominante? So che lei a suo tempo andò a casa del ragazzo che aveva accoltellato suo figlio.
Io sono fermamente convinta che, come si dice spesso, per educare un bambino occorra educare un intero villaggio nel senso di essere e fare famiglia anche oltre le relazioni biologiche convenzionali. Noi dovremmo pensare di educare tutto il corpo sociale perché è chiaro che quando si verificano circostanze di una tale gravità evidentemente non ha tenuto la famiglia ma non hanno tenuto neanche la scuola, la comunità, la parrocchia, la politica, la società civile. Quindi, evidentemente, noi dobbiamo ripensarci come corpo sociale che nel suo complesso prova ad essere di contenimento e di cura per questi ragazzi devianti in quanto il fenomeno si è amplificato nel corso del tempo, piuttosto che ridotto. La dispersione scolastica continua ad avanzare e il deficit di risorse umane è così totale e macroscopico che non riusciamo a trattenere questi ragazzi entro quella linea del confine del possibile. La copertina del libro Ragazzi che sparano simula proprio questa scena, cioè un ragazzo che gioca a campana, che fa un balzo e trova a terra una pistola. È chiaro che per entrare nella devianza basta un salto, un istante che cambia le traiettorie di vita di questi ragazzi.
Un altro concetto è quello della impossibilità del sistema penale di poter risolvere ogni caso problematico ma che occorra sinergia tra istituzioni e organizzazioni. Potrebbe essere utile secondo lei spostare i ragazzi lontano dalla loro città e creare occasioni perché capiscano che può esistere un’altra vita?
Sì certo. Io sono totalmente una fautrice di questi metodi. Nello stesso libro è riportata l’esperienza di liberi di scegliere il protocollo che Roberto Di Bella applica per i figli di ‘ndrangheta. Ai ragazzi che deviano dovrebbe davvero essere data un’opportunità concreta di spostarsi altrove, di ricominciare, di sottrarsi alla pressione del territorio, del quartiere. Molti dei ragazzi che abbiamo intervistato in carcere ci hanno detto che non vogliono ritornare nel quartiere da cui provengono. Per loro il quartiere è criminogeno, è il luogo dal quale loro non si riescono a separare, che di per sé è la profezia che si autoadempie. In qualche modo è il luogo che ricrea le condizioni affinché loro tornino a delinquere. Allora se noi non riusciamo anche con le misure dure, coraggiose, forti, scomode a sottrarli alla pressione e alla predestinazione del quartiere, questi ragazzi difficilmente ce la fanno e lo raccontano drasticamente i dati di recidiva che noi abbiamo misurato e che corrispondono al 63% nel caso del perdono giudiziario. Perdonare i ragazzi senza fare niente di concreto consegna loro quel principio di impunità che li porta sistematicamente a delinquere. La Messa alla Prova è una misura enorme, eccezionale, ma va monitorata, controllata periodicamente e poi un altro tema che il libro solleva, ed è una grande denuncia, è che noi non facciamo niente nell’ambito post carcerario. Dopo che i ragazzi hanno saldato il loro debito con la giustizia non se ne saprà più nulla. Invece occorrerebbe monitorarli periodicamente.
Al professore Di Gennaro, ordinario di Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale, presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II dove coordina il Master di II livello in Criminologia e diritto penale. Analisi criminale e politiche per la sicurezza urbana, ho chiesto: nel libro sottolineate come sia necessario l’inserimento di nuove professionalità che possano rinnovare e innovare le competenze nell’ambito della rieducazione carceraria e post carceraria. Esistono attualmente i presupposti e la consapevolezza per cui questo possa verificarsi?
Esistono perché sull’importantissimo tema della rieducazione abbiamo registrato una sensibilità anche all’interno del Ministero della Giustizia, dello stesso DAP, del Dipartimento della Giustizia, cioè l’esigenza di includere, approfittando ovviamente delle risorse del PNRR, delle figure professionali che abbiano competenze criminologiche e pedagogiche. Questo è un tema centrale che richiede anche di ritoccare alcuni aspetti di riforma del DPR 448 del 1988 che riguardano la necessità di costruire un impianto che sia un po’ più efficace ai fini di innervare il senso della consapevolezza e della conseguenza dell’agito dei minori. Per gli istituti di Messa alla Prova ci troviamo in una situazione in cui la misura può essere data indipendentemente dalla gravità del reato quindi anche per omicidio o per stupro di gruppo. Ora il problema è che dobbiamo chiederci se una misura di questo tipo costituisce davvero una modalità che restituisce al minore, anche a distanza di tempo, il senso della responsabilità soggettiva nonché quel principio fondamentale di crescita e di responsabilità che è interno anche all’impianto del Codice Penale Minorile. Io credo di no. Questo è un aspetto importante, che va discusso, sul quale bisogna confrontarsi seriamente. Tra l’altro c’è un aspetto che riguarda tutti i distretti giudiziari e cioè: dal momento in cui accade un evento a quando viene affrontata la questione in sede di giustizia minorile, trascorrono molti anni quindi c’è un’obnubilazione dalla memoria del fatto. Il minore che ha commesso il reato a quattordici – quindici anni, viene chiamato a rispondere di tale reato a venti – ventuno anni, quando ormai ha un’altra personalità. Per i dati che noi abbiamo studiato, anche in altre ricerche, abbiamo notato che c’è un tasso di recidiva e di ricaduta criminale molto alto per quelli che hanno ricevuto il perdono giudiziale e per quelli che sono stati i titolari della Messa alla Prova. Allora se prendiamo questi indicatori ci dobbiamo porre il problema e chiederci se il modello che viene utilizzato è vincente. Poi c’è tutto un altro aspetto che consiste nel fatto che questi ragazzi, dopo che sono passati per l’istituto di Messa alla Prova o addirittura per la penalità, quando escono non sono assolutamente seguiti, cioè non c’è una struttura, un’istituzione o un organismo che in qualche modo sviluppi il follow-up cioè monitori in che cosa gli interventi siano consistiti e quali siano i risultati ottenuti.
Noi abbiamo affrontato questa questione perché stiamo parlando di un ambito circoscritto di comportamenti molto gravi, cioè dei ragazzi che compiono reati con l’uso delle armi. Fra l’altro, in certi ambienti, non si può dire che essi non abbiano la consapevolezza specialmente se vengono orientati e socializzati all’uso delle armi, solitamente sono ragazzi per i quali rientra nel loro stile di vita contemplare la violenza e l’uso delle armi.
Ci siamo, inoltre, interrogati anche sulla dimensione etica, morale, chiedendoci in che misura questi giovani sono orientati, agevolati, spinti, educati e socializzati alla condizione morale in ragione delle relazioni che hanno, delle reti di amicizia e dei contesti di vita. Usiamo, infatti, il concetto di disimpegno morale che in letteratura, tra i pedagogisti e non solo tra gli psicologi sociali, è stato ampiamente studiato anzitutto cercando di capire in che consiste la devianza, come si esprime e perché abbiamo queste forme così gravi. Infine c’è tutto il tema di un contesto che è abitato dal crimine organizzato, dalla camorra, in cui c’è la debolezza strutturale delle istituzioni. Questi sono tutti elementi che concorrono ad aggravare la situazione.
Il dibattito che è stato condotto nella presentazione è stato molto interessante e ampio. Tanti i temi toccati, le esperienze e i dati portati a riprova del fatto che ci troviamo in un momento di grave crisi sociale e che è necessaria un’operazione sinergica e fattiva.

Maria Paola Battista, Sociologa, editor e giornalista, scrive recensioni di libri e interviste agli autori per varie testate.