Riccioli d’oro e il pibe de oro
C’erano una volta tre Orsi, che vivevano in una casina nel bosco.
C’era Babbo Orso grosso grosso, con una voce grossa grossa.
C’era Mamma Orsa grossa la metà, con una voce grossa la metà.
E c’era un Orsetto, piccolo piccolo con una voce piccola piccola.
Da Riccioli d’oro e i tre orsi
Napoli 5 luglio 1984: con le mille lire del prezzo del biglietto ero dentro lo stadio San Paolo, insieme ad altre 80mila persone, per vedere Diego Armando Maradona arrivato a Napoli dopo la rottura col Barcellona e una abile trattativa sociale, politica, bancaria e di mercato calcistico.
Era una giornata estiva di ormai tanti anni fa.
Io, ancora ragazzino coi riccioli d’oro…
Lui, presto sarebbe diventato el pibe de oro prima che la mano de dios…
Ma voi, avete mai letto la favola Riccioli d’oro e i tre orsi?
La storia è semplice ma illuminante e polisemica: una bambina coi riccioli d’oro entra nella casetta dei tre orsi mentre questi sono fuori, e in una sorta di viaggio iniziatico, si trova ripetutamente difronte a tre scelte che variano sempre tra il troppo e il troppo poco; dopo ogni prova la bimba capisce che la via di mezzo è sempre la migliore.
La favola è molto conosciuta nei paesi anglosassoni.
Possiamo immaginare che funzioni per loro come una metafora culturale.
Ne è scaturito anche un Principio
Il Principio Goldilocks è una nozione semplessa, intuitiva e quasi lapalissiana; ma è anche un principio sfuggente come Proteo quando si cerca di irrigidirlo in una formula monosemica.
È un principio apparentemente semplice da capire e applicabile ad un’ampia gamma di discipline che spaziano dalla biologia alla psicologia dello sviluppo, dall’astronomia all’economia, dall’ingegneria alla medicina alla scienza dei sistemi complessi.
Per esempio: in astronomia il nome della protagonista di questa favola è diventato un appellativo per stelle, pianeti e regioni dello spazio dotate di una caratteristica peculiare: quella di essere potenzialmente permissive per forme di vita simili a quelle che vediamo sulla nostra Terra.
E per l’appunto, il nostro pianeta, il nostro sole e la nostra zona di galassia sono in una condizione “riccioli d’oro” che ha permesso alla vita di svilupparsi, che ha permesso la formulazione del principio antropico, ed ha permesso a noi ora di interagire – tra gli altri -, nell’esatto modo in cui stiamo facendo adesso: io nel raccontare una storia e voi nel leggerla e interpretarla attraverso un medium digitale ed una rete internet.
Nella ricerca della vita extraterrestre e di una nuova “casa lontano da casa” che potrà un giorno ospitare l’uomo, gli scienziati cercano pianeti nella “zona abitabile di una stella” (ovvero “zona di riccioli d’oro” o “goldilocks zone”), dove le temperature non sono troppo alte (come la zuppa di papà orso) né sono troppo basse (come la zuppa di mamma orso) ma sono proprio giuste perché sul pianeta possa esserci acqua liquida e tutte quelle altre condizioni atte a sostenere lo sviluppo di forme di vita così come la conosciamo e immaginiamo oggi.

Oggi è San Lorenzo; tra un po’ alzerò lo sguardo al cielo, e se smetterà di piovere, cercherò le stelle: è la notte delle stelle cadenti.
Secondo alcuni – e parliamo anche uomini di scienza con teorie perfettamente scientifiche – anche noi saremmo caduti dalle stelle … o almeno i nostri più arcaici predecessori sulla linea evolutiva.
A Napoli, un’estate di ormai quasi 40anni fa, cadde una stella che vivificò un popolo…
In una zona d’universo calcistico che nessuno avrebbe immaginato essere per qualche ragione una goldilocks zone, scese una stella del calcio: el pibe de oro.
Un elicottero portò giù dal cielo di Fuorigrotta, fin dentro lo stadio San Paolo e nel cuore di una Napoli che si era imbellettata di azzurro per l’occasione, quello che dai più oggi è ritenuto il più grande campione di calcio di tutti i tempi: Diego Armano Maradona.
Secondo la ricostruzione dello scrittore e giornalista Angelo Forgione, quella dell’Estate 1984 fu la <<trattativa del secolo, la più impensabile della storia del calcio>>.
Maradona dal Barcellona al Napoli: ossia una stella che migra dal centro dell’universo calcistico ad una periferia della galassia sportiva del pallone, dove però non mancano numerosissimi i tifosi appassionati e desiderosi di vittoria e riscossa.
Il club azzurro, di fatto, non aveva mai vinto nulla di importante e aveva appena scansato la meteora disastrosa di una retrocessione in Serie B.
Chi poteva immaginare che l’adamantino talento del calcio mondiale potesse <<lasciare il ricco Barcellona per calarsi nell’anonimo Napoli di Ferlaino, che fin lì aveva oculatamente badato a tenere in ordine il bilancio sociale>>?
Forse nessuno poteva immaginarlo, ma talora le vie della storia e del destino si intrecciano in eventi X dall’estetica mitica.
Oggi, col senno di poi (analisi post hoc, direbbe qualche esperto), ci può apparire naturale quella “corrispondenza di amorosi sensi” che da subito legò – nel bene e nel male -, il destino di un campione e di una città a lui devota.
Allora, proviamo a vedere chi furono gli attori di questa storia ancora oggi così avvincente per i napoletani e proviamo a capire perché Napoli fu a quei tempi una zona riccioli d’oro per un campione geniale e tanto fuori dai ranghi.
Le variabili in gioco furono tante e gli stakeholders di quell’evento che ha segnato il destino di una città e dei suoi abitanti oltre a quello di un campione indiscusso e di un uomo fragile, hanno le fattezze dei personaggi allo stesso tempo di un giallo e di un capolavoro romantico degno di un Victor Hugo.
Secondo A. Forgione, solo erroneamente viene attribuito a Corrado Farlaino il merito di quella “missione impossibile”.
Siamo nell’estate del 1984, e il dirigente sportivo Pierpaolo Marino informò Giampiero Boniperti delle acque caotiche e agitate che stavano portando alla rottura tra Maradona e il Barcᾳ; ma in casa bianconera non si volle trattare l’affare; si era allora soddisfatti di Platini e si liquidò la cosa “prevedendo” che Diego, con quel fisico che si ritrovava, non sarebbe mai potuto arrivare lontano. Oggi, io ancora penso che i dirigenti juventini furono allora saggi a trattare così l’affare, ché gestire la complessità dell’uomo Maradona, dentro e fuori del campo, sarebbe stato forse impossibile per la loro forma mentis, che io mi immagino come quella di una scacchiera con un ordine lineare senza spazio da concedere ad un caos deterministico.
Autoesclusasi la Juve, Marino contattò i dirigenti partenopei Juliano e Celentano, che invece incredibilmente credettero nella possibilità di portare Maradona a Napoli.
Il campione argentino era costosissimo e la società calcio Napoli non aveva i soldi richiesti dal Barcellona; perciò, il presidente Ferlaino non credeva nell’impresa e intanto già stava trattando con l’Atletico Madrid per portare a Napoli il campione messicano Hugo Sanchez.
I tifosi napoletani, annusata la trattativa col Barcellona, subito sentirono il profumo di vittoria e riscossa, e sognarono Maradona, e ne acclamarono la venuta.
Maradona non disdegnò il Napoli e si innamorò dei napoletani (nel bene e nel male), che lo chiamarono El pibe de oro: un soprannome che, come raccontava lo stesso campione argentino <<mi fu dato per tutto quello che sono stato per la città>>.
Diego, uomo di amore e libertà e genio sregolato, così, una volta, raccontò la storia dalla propria prospettiva <<andai via da Barcellona perché litigavo col presidente Nunez, ma non c’erano squadre disposte a comprarmi. Il Napoli fu l’unica che si fece avanti, fu un miracolo portarmi in Italia>>.
Per ultimo ma non perché l’ultimo, non tralasciamo uno stakeholder meno appariscente ma fondamentale: l’allora imponente compagine politica campana, tanto forte anche a livello nazionale, che per qualche motivo volle Maradona a Napoli.
Nelle parole dell’ex Ministro Paolo Cirino Pomicino – milanista partenopeo -, <<io, Antonio Gava e Vincenzo Scotti facemmo pressione su Ventriglia del Banco di Napoli. Ferlaino da solo non ce l’avrebbe fatta>>.
Era l’epoca in cui, nel Consiglio di Amministrazione del Napoli di Corrado Ferlaino sedeva un personaggio di spicco per ogni corrente della DC. Il sindaco di Napoli Scotti fu stimolato, da Pomicino e Gava, a fare il “miracolo”; si ottenne così la copertura finanziaria dell’operazione dal Banco di Napoli e in piccola parte anche dal Banco di Roma, dal Banco di Santo Spirito e dal Monte dei Paschi di Siena.
Qualcuno pensa che, per la politica nazionale e per quella napoletana, il fuoriclasse argentino fu il panem et circenses offerto ai napoletani scossi e abbattuti dal terremoto, dalla disoccupazione endemica, dalla cassa integrazione per i lavoratori di Bagnoli, dalle ingravescenti guerre di camorra.
Scrive Forgione: <<Le tensioni sociali erano preoccupanti, e Maradona contribuì enormemente a calmarle. Il Napoli vinse gli scudetti nel momento più critico del secondo Novecento per Napoli. Potere del calcio>>.
Fu quello il tempo de El pibe de oro, e mai più per il calcio (e forse non solo) del Napoli si è ripetuto un tale “periodo riccioli d’oro”: i partenopei vinsero due Scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana.
Il IV Principio della Complessità di John Casti è il principio di Riccioli d’oro
Come ormai apparirà chiaro, il nome è stato mutuato dalla fiaba Riccioli d’oro e i tre orsi di Robert Southey, dove – come abbiamo visto – la piccola protagonista Goldilocks (“Riccioli d’oro”) puntualmente si adatta bene ad una personale e congeniale via di mezzo, ogni volta che le si paventano gruppi con tre elementi tra cui scegliere.

Ad esempio: nel fare colazione con tre diverse ciotole di porridge, scopre di preferire quella che non è né troppo calda né troppo fredda ma con la “giusta” temperatura.
Nella fiaba inglese dell‘800, Goldilocks giunge alla casa di una famiglia di orsi mentre questi stanno passeggiando nel bosco nell’attesa che si raffreddi la colazione preparata da mamma orsa. Nel trovare la casa vuota, Riccioli d’oro decide di entrare e dopo aver assaggiato la zuppa nella ciotola di babbo orso – che è troppo calda – e quella nella ciotola di mamma orso – che è troppo fredda – mangia infine dalla ciotola del piccolo orso figlio che invece semplessamente “andava bene”. La storia si ripete nella scelta di una sedia dove sedersi e di un letto dove riposarsi; ogni volta Riccioli d’Oro prova tutte le opzioni ma ogni volta la “scelta giusta” per lei è una sola; e vista la sua età e statura – vicina a quelle del piccolo orso -, manco a farlo apposta la scelta ottimale è sempre quella che attiene proprio al piccolo di casa.
Il principio Riccioli d’oro attiene al fatto che in ogni Sistema esiste una “zona” in cui i costituenti del Sistema stesso hanno una fitness ottimale, ovvero che ogni Sistema predilige per la propria miglior fitness, determinate ottimali condizioni ambientali.
Ad una osservazione attenta, apparirà chiaro come la zona di predilezione scaturisca non da valori assoluti inerenti il sistema stesso ma dall’interazione del sistema oggetto (che possiamo descrivere come sistema meronimo) con l’ambiente in cui questo è immerso (che possiamo descrivere come un sistema olonimo rispetto al primo) in uno scambio continuo di interazioni.
Quando i gradi di libertà disponibili per un sistema oggetto sono come la tazza prediletta della colazione di Riccioli d’oro, ossia non troppo calda né troppo fredda ma alla temperatura giusta, allora il Sistema stesso riesce ad operare in un modo ottimale: aperto, dinamico e adattivo.
Nella Teoria dei sistemi caotici si definisce margine del caos quell’area fertile in cui deve muoversi un sistema oggetto per cogliere le proprie migliori opportunità di persistenza, adattamento e sviluppo, cercando di evitare le mortifere adiacenze che fanno sconfinare il Sistema stesso in una zona di deserto ovvero in un disastroso precipizio evolutivo.
Il margine del caos è quella linea sottile su cui il Sistema deve muoversi come un abile timoniere tra Scilla (colei che dilania) e Cariddi (colei che risucchia)
La linea sottile viene tracciata in un divenire continuo e incerto tra un campo in cui il Sistema è irrigidito e ha poco spazio di movimento per esplorare nuovi territori e regimi di azione e interazione (ha pochi gradi di libertà), e un campo in cui il Sistema diventa caotico al punto tale da perdere la propria definizione strutturale e la propria specifica composizione e individuazione (ha un troppo alto numero di gradi di libertà).
I Sistemi Adattivi Complessi (CAS) – e in particolare la Vita nelle sue innumerevoli forme -, si trovano a viaggiare sull’orlo del caos e sovente sono chiamati, volente o nolente, a confrontarsi con i gradi di libertà a cui hanno potenziale accesso.
Fino al Medioevo le Colonne d’Ercole hanno rappresentato il limite ultimo e invalicabile della Terra conosciuta.
Secondo il mito, Eracle pose le “colonne” ai lati dello Stretto di Gibilterra, tra i promontori di Calpe e di Abila.
Una nave che allora intendesse avventurarsi oltre le colonne d’Ercole si sarebbe esposta a rischi ed opportunità incommensurabili per le conoscenze dell’epoca: naufragio e morte! Ovvero, nuovi mondi e grandi ricchezze!
Cristoforo Colombo è l’esempio del successo nell’avventurarsi (pur con alcune importanti premesse errate!) alla scoperta di nuove rotte che sconfinano dai paesaggi di fitness noti e comunemente battuti. Tanti amari naufragi sono per contro l’esempio del rischio che serba l’avventurarsi in seno a un oceano sconosciuto.
Nel mito, Ulisse è l’emblema e campione umano del superamento dei limiti.
Superate le colonne d’Ercole, per convincere il proprio equipaggio a continuare nell’impresa, Ulisse dice loro: <<considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza>> (Dante, Inferno, canto XXVI).
Ma, quello di Ulisse, è un superamento dei limiti (e perciò stesso una hybris) non incalzato dalla sola Bia – schiava della sua stessa forza bruta -, ma temperato da Metis ossia dalla prometeica prudenza, previdenza, astuzia e calcolo del Logos.
Come in tutte le più belle storie, anche nella nostra non può mancare sulla scena il personaggio meno visibile ma più centrale, complesso e sfuggente: Mesòtes
Mesòtes è quello che Bateson avrebbe descritto come la struttura che connette
È infatti Mesòtes che utilizza Hybris ma le toglie al contempo la centralità di scena, tracciando rotte nuove di navigazione in mari pur sempre ignoti e pericolosi ma non deserti di opportunità favorevoli da cogliere con spirito di avventura e voglia di conoscenza.
Come Ulisse che si fa legare all’albero della nave per ascoltare il canto delle sirene senza però farsene irrimediabilmente ammaliare, anche noi – con la nostra scienza -, dobbiamo imparare a navigare in questi mari dell’incertezza e dell’ignoto senza spinte autodistruttive (perché spesso, come esseri umani accecati da hybris e stoltezza, non riusciamo neppure a scegliere la nostra ottimale zona riccioli d’oro quando ci è concessa e ci viene parata innanzi senza veli); dobbiamo imparare a navigare con la consapevolezza che la vita può talora metterci difronte a pasti poco gustosi e senza molta scelta.
Non sempre alla nostra Riccioli d’ora sarà consentita una lapalissiana scelta di misura buona per tutte le taglie.
La mesòtes è un abito tailor made e solo abili sarti sanno cucirla nella giusta misura e per le giuste occasioni.
Talora il destino taglia e sfoltisce i nostri gradi di libertà e ci riserva calici amari!
Quante volte ci consente la sola scelta tra il bere o l’affogare?
Ad esempio, passando di palo in frasca ma pur rimanendo nel principio riccioli d’oro: la pandemia da nuovo coronavirus ci ha scaraventato in un evento X a cui non eravamo preparati; il covid-19 ci ha costretto ad esplorare nuovi territori, fatti di isolamento, imposizioni sanitarie e politiche, inadeguatezze strutturali stratificate a molteplici livelli della nostra organizzazione come comunità umane ed ecologiche, che hanno forzato il nostro equilibrio sull’orlo del caos fin quasi al punto di rottura, e di sconfinamento in regimi di azione disumanizzanti e regressivi.
Siamo dovuti entrare in un campo nuovo, completamente sbilanciati sul nostro filo acrobatico dell’orlo del caos, con numerosi tagli ai nostri gradi di libertà e con una dotazione in fitness nel nuovo scenario che ci appare pericolosamente ridotta: S’e’ aunito ‘o strummolo ‘a tiriteppola e ‘a funicella corta, direbbero qui da me a Napoli.
Mentre ancora piangiamo i nostri morti e ci curiamo o lecchiamo le ferite (dipende da quanto Sistema Sanitario efficace ci è rimasto!), siamo ancora difronte a un futuro incerto rispetto alle migliori risposte – sanitarie, sociali, politiche, economiche, ecologiche – da mettere in campo contro SARS-CoV-2.
E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce
Giovanni, III, 19
E nel frattempo, il panem et circenses che ci propinano è quello dello spettacolo immondo della Guerra; spettacolo filtrato da una medialità troppo spesso arrogante e malata, che tristemente restituisce la scena all’irruzione di Hybris, e ridispone obsoleti schieramenti che lacerano l’unità della catena umana che faticosamente si cercava di costruire e tenere insieme.
Poco si lavora per la realizzazione di una umanità che ancora in troppi vogliono cieca e ignorante.
Come tristemente e poeticamente cantava Leopardi:
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Ben possiamo dire con Umberto Saba:
Ben mi apparvero eterne
verità, ma infinita
n’è l’amarezza.
Su più fronti vediamo l’ottusità di Hybris che, non più ai lacci di Metis, prevarica in una indifferente brutalità, stupidità e arroganza la mesòtes.
Si è rotto l’equilibrio, tanto caro agli antichi greci, tra limite (peras) e illimite (apeiron).
L’equilibrio della mesòtes era una garanzia ontologico-metafisica ma anche etica, estetica e politica, ed era l’unica bussola funzionante per viaggiare sull’orlo del caos che abita l’uomo.
Solo il gioco sapiente guidato da Mesòtes produce quell’ordine nel caos che è bilanciamento accorto tra l’azione di peras e quella di apeiron.
“E i sapienti dicono, o Callicle, che cielo, terra, dèi e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione, o amico, che chiamano questo intero universo «cosmo», ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza. Ora mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dèi e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l’eccesso: infatti trascuri la geometria!” (Platone, Gorgia, 507 e-508 a).
La scienza dei sistemi complessi ha scoperto il principio di riccioli d’oro.
Ma Riccioli d’oro altro non è che la Mesòtes dell’antica grecia
È ancora il nostro Proteo che pur nelle sue forme mutevoli e innumerabili, rimane custode fedele dell’ordine delle cose.
Per i più, è più facile riconoscere Riccioli d’oro nelle forme più semplici del giusto mezzo e dell’aurea mediocritas.
È altresì possibile rintracciare la nostra Riccioli d’oro nell’etica aristotelica e in quella platonica della metriopazia ossia nell’etica del controllo delle passioni attraverso l’azione della ragione; etica che dovrebbe servire da timone per condurci all’evitamento sia di colei che dilania che di colei che risucchia: tanto dell’eccesso quanto dell’eliminazione delle passioni e della ragione.
L’etica riccioli d’oro è quella che dovrebbe tenerci lontano dai canti di sirena che inducono quel pericoloso sonno della ragione che genera mostri.
In tal senso, ciascuno dovrebbe andare alla ricerca della propria mesòtes, che mai è stata necessariamente la moderazione in sé, né un punto statico e intermedio, ben piazzato e ben visibile e valido per tutti e sempre.
È questo il momento di capire che neppure alla scienza dobbiamo chiedere:
la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.[…]
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
Già Eraclito aveva insegnato che tutto scorre; in questa fluidità del mondo, anche la mesòtes greca non è una linea precisa e immutabile, scolpita per sempre nei suoi confini, ma piuttosto uno spazio dinamico e carico di tensioni in cui ci muoviamo e che può variare a seconda delle circostanze.
Dobbiamo riappropriarci di quella saggia epistemologia ed ecologia della mente e di quella sacralità del vivente, del tipo proposto da uomini dello spessore scientifico e umano quale Gregory Bateson.
Con questi strumenti e competenze, possiamo avventurarci nel mare agitato del caos lì dove il destino e il temperamento ci spingono e ci attirano.
È sul filo di queste considerazioni che torno a pensare ad una metafora della metafora che oggi vi ho proposto: quella metafora azzurra della mia squadra del cuore come metafora del principio riccioli d’oro declinato in chiave di principio che governa la complessità e che può condurre a eventi X disastrosi o grandiosi.
Come pensava Blaise Pascal:
L’uomo non è né angelo né bestia,
e sventura vuole che
chi vuol fare l’angelo faccia la bestia.
Ed ecco che il “buon ordine” e l’aurea mediocritas tenute dal Napoli di De Laurentis, mi appaiono quelle di un buon nocchiero inchiodato in una comfort zone utile al proprio giusto business imprenditoriale, agli stipendi e benessere materiale dell’entourage, al buon andamento di un campionato fatto di acque calme di panem et circenses one fit per tutti.
Ma il “buon ordine” utile e favorevole alle ambizioni di chi si accontenta di non andare in serie B, non è il “giusto ordine” della mesòtes che sogna la maggioranza dei tifosi del Napoli.
Questo “buon ordine” della mia squadra azzurra sarebbe una ottimale zona di comfort per un sistema adattivo complesso orientato a non correre rischi, e voglioso di sopravvivere in tranquillità al prezzo di non superare mai le “colonne d’Ercole”.
Ma come abbiamo appreso dal III principio della complessità, tutto ha un costo e nessun pasto è gratis.
Oggi, a Napoli, il pagatore del sogno di scudetto dei napoletani si vorrebbe che fosse il presidente del club calcistico; ma questi non è tenuto necessariamente ad essere tifoso dei tifosi della propria squadra né tantomeno a dover dare pasti gratis ai napoletani.
Perciò, egli – bravo a girare film del genere “missione impossibile (mai portata a termine)” -, può condurre il proprio business senza la necessità di essere San Gennaro e “fare il miracolo” di riportare un Maradona a Napoli.
D’accordo, i napoletani gli portano introiti andando allo stadio e seguendo le partite in TV e acquistando gadget, ma questo potrebbe non essere per lui motivo sufficiente per sbilanciare la sua relazione coi napoletani verso i loro desideri di vittoria e riscossa (calcistica).
Questo col popolo dei tifosi potrebbe essere anche solo una parte del business, con un’altra parte – lecita e imprenditorialmente impeccabile -, che potrebbe essere rivolta verso altre squadre da cui acquistare promesse del calcio per poi rivendere talenti formati e messi in vetrina.
In un tal genere di business, nessun campione dovrebbe legarsi abbastanza alla città, alla gente o alla squadra; nessuno dovrebbe fare come ha fatto Maradona e nemmeno come ha fatto Mertens (che ha pure chiamato Ciro il proprio figlioletto, in onore del soprannome che i napoletani gli hanno amorevolmente dato).
Perché, se io fossi un imprenditore spregiudicato e senza desiderio di vincere il campionato, in ultima analisi dovrei fare in modo che i campioni, da campioni, non debbano sentire la voglia di arrivare a Napoli ma piuttosto quella ‘e fùi da Napoli.
Questa, evidentemente e per me tristemente, è ritenuta oggi la zona riccioli d’oro più congeniale alla fitness della società partenopea di calcio e anche a tanti napoletani.
Sembra la nemesi calcistica di un destino fatale della mia città.
L’uomo è un pendolo che oscilla fra il bruto e l’angelo
(Victor Hugo)
Ma per fortuna che i napoletani – pur sconfinando talora in una pericolosa hybris -, come quasi sempre nella loro travagliata storia, e con l’esuberanza di chi ha fatto un patto faustiano con la propria terra, sanno seguire con fiuto istintivo quel filo instabile della propria mesòtes.
Come nel viaggio a Napoli che a fine ‘700 fece J.W. Goethe, <<Ecco che per la città ancora si muovono uomini di cultura, di mondo e di vita ma non insensibili agli ammonimenti d’un destino superiore e inclini alla riflessione>>.
Perché Napoli, nella sua complessità e simbiosi tra elementi solo apparentemente spuri tra loro, ancora oggi si presta alle parole con cui la descrisse Goethe: <<Napoli è un paradiso; tutti vivono in una specie di ebrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso, non mi riconosco più, mi sembra di essere un altro uomo. Ieri mi dicevo, o sei stato folle fin qui, o lo sei adesso>>.
Come diceva Epicuro :
“dobbiamo essere moderati con la moderazione”
E allora, benvenuti a Napoli, dove vivendoci potrete apprendere il know-how di una mesòtes in infinita danza, che – in via costitutiva e con proporzioni variabili -, lascia spazio sulla scena del teatro della vita tanto a Metis quanto a Hybris, e che perciò stesso nega a Hybris quel suo archetipico attributo che è l’irrompere improvviso e inatteso sulla scena, in un tempo non noto.
Qui, come nella miglior scuola di complessità, l’inatteso è atteso e i colpi imprevisti del destino sono già in quel duro bagaglio che ci ha piegati senza mai spezzarci, in un esercizio di resilienza che ha tatuato il proprio codice fin dentro al nostro DNA, e che ha scritto le proprie note e laudi sugli spartiti del Cielo del Mare della Terra (e di qualche Eroe).
Qui, la gente, ha saputo adattarsi a lande come la ginestra di Leopardi:
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti
Allora, attenti a giudicare una terra dove non si è mai avuta la presunzione di coniugare Hybris con Diche.
Da qui, non si è mai partiti per una guerra imperialista, eppure si è rimasti per dilaniare il proprio territorio in faide.
Qui, dove non è mai stato permesso all’Inquisizione di mandare al rogo un essere umano, si è consentito alla prepotenza di imporre la propria giustizia.
Benvenuti nella città ove i riccioli d’oro sono stati i riccioli neri di uno scugnizzo che si è perso nel ritrovarsi e si è ritrovato nel perdersi, adottato da una terra in cui non è mai possibile separare genio e sregolatezza; dove il male può divenire bene e viceversa.
Dove regni e politiche che ha schiacciato un popolo, per strane vie lo hanno talora anche fatto risorgere e inorgoglire.
Benvenuti nella città dove i riccioli d’oro possono apparire nella forma del pibe de oro.

Beniamino Casale, responsabile IPAS Terapie Molecolari e Immunologiche in Oncologia – AO dei Colli – Ospedale Monaldi.