RICERCATORI RARI: QUANDO LA MALATTIA COLPISCE LA SCIENZA

La poetessa Ackerman soleva dire che la solitudine subentra quando ci allontaniamo da una parte di noi stessi. Questo fa, la malattia: ci distanzia da chi siamo, separando il nostro corpo d’un tratto ribelle dal governo della nostra mente. Se il fenomeno disturba ogni persona, figuriamoci quanto più perturbante risulti in chi mente e corpo, morbo e soluzioni, li studia per mestiere e vocazione.

Questa che raccontiamo oggi è la storia di Cristina e Giacomo, due sconosciuti le cui vite a un certo punto convergono, come il loro esofago indocile, effetto collaterale di un Destino inatteso, e dell’acalasia esofagea, malattia rara a eziologia sconosciuta e dalla presenza scomposta.

Se è vero che la scelta delle parole conferisce valore al pensiero, come anche l’ordine in cui esse si dispongono, non si può non notare che nella gerarchia dei sintomi prevale il dolore. Fisico, certamente. Ma pure emotivo. Dacché il disagio del corpo priva di grazia ogni lucidità.

Per entrare appieno nella loro esperienza, la prima cosa che abbiamo chiesto è quando la malattia si sia palesata sul calendario nella loro vita. Anche perché supponiamo che un gran dolore si ammansisca quasi sempre con l’aiuto istintivo della memoria, dunque qualcuno simula il ricordo, qualcuno ne raccatta i pezzi più decenti, ma per lo più si tende a cancellare, o almeno ci si prova.

Una volta riavvicinati alla nostra essenza di paziente, quello che chiediamo ai nostri intervistati riguarda le emozioni.

Cristina ci racconta del dolore, esteso, fitto, pungente, talmente intenso da sembrare apnoico. L’intermittenza quasi mai conforta, ché la stoccata successiva è spesso più dannosa della precedente, e non vale la temporanea tregua.

Giacomo ci elenca un concreto Rosario di emozioni: smarrimento, paura, incomprensione, fragilità, isolamento, confusione, precarietà. Solo che questa è una preghiera al contrario, che non ammette indulgenze.

Quando indaghiamo in che modo la malattia intervenga negli equilibri quotidiani, ciascuno concretizza i sintomi adeguandoli al contesto di propria appartenenza.

In Giacomo, che a soli vent’anni ha saputo di essere acalasico, prevale il racconto del disagio, della disarmonia di un tempo sociale non più rispondente al suo volere, di quelle privazioni una volta elementari che spesso diamo per scontato: una serena cena in famiglia, la spontaneità di un bacio alla fidanzata, una goliardica uscita con gli amici. Questo perché uno dei sintomi costanti e più presenti dell’acalasia è il vomito continuo, il rigurgito invadente, l’impellenza di allontanarsi (quando non evitare del tutto) da cibo e momenti conviviali che prevedano la condivisione di un piatto caldo o di una bibita fresca. Qualunque alimento, che sia solido o fluido come l’acqua, potrebbe comportare l’imbarazzo di doversene liberare quanto prima, senza troppo preavviso, né alternativa. E quando succede, i tentativi altrui – a volte teneramente goffi, a volte esasperati e quasi coercitivi – di rasserenare o addurre allo stress qualunque accadimento, tutt’altro che lenire, non fanno che acuire il dispiacere, e l’impressione di non essere capiti.

Per Cristina c’è stata una lezione: l’acalasia le ha rammentato che non bisogna mai dare niente – e nessuno – per scontato, e che bere un bicchiere d’acqua fresca, o mangiare senza timori un piatto di prelibatezze, a quanto pare non è un agire che ci tocca di diritto, ma una conquista che lei traduce con battaglia, e il termine la dice lunga su quanto abbia lottato a ogni pasto.

Le risposte di Cristina e Giacomo si accavallano, si sovrappongono, sono spesso calchi di vite diverse e lo stesso dolore. Pur essendo intervistati a chilometri di distanza, nonostante le divergenze (opportunamente volute) di genere, età, interessi e stili di vita, e con una conoscenza intensa ma relativamente giovane, hanno usato sovente le stesse parole, le stesse espressioni, e ci piace immaginare lo stesso sguardo lucido e commosso nel ricordare il primo boccone dopo l’intervento.

Dall’acalasia esofagea non si guarisce mai, ma in un accesso di generosità (e soprattutto grazie alle abilità di Clinica e Ricerca) regala l’emozione del primo boccone della vita, una seconda volta. Sentire che scende, che non si blocca, che non ci toglie il fiato in pochi secondi d’interminabile impotenza, è qualche cosa che sconfina le parole, e non si può spiegare. Dunque preferiamo non forzare l’emozione, e passiamo all’impegno condiviso.

Orbitare in un’associazione è coerente con la scelta, ben più datata, di mettere a disposizione della collettività ingegno, costanza e competenze.

Entrambi, infatti, si sono dedicati alla Ricerca, e quando è intervenuta l’acalasia ne hanno declinato la presenza, a seconda del campo operativo scelto.

Cristina, professore associato universitario, si occupa di Farmacologia, e in tempi non sospetti, quando la malattia era qualcosa di osservato e meno di vissuto, ha iniziato un’indagine approfondita su cause ed evoluzioni dell’Alzheimer.

Giacomo invece, che ha studi più recenti, inanella una pubblicazione dietro l’altra, e inizierà un dottorato in Ingegneria e Scienze informatiche, approfondendo la costruzione di soluzioni per la comprensione automatica del linguaggio naturale e l’estrazione di conoscenza dal testo.

Talento, grande disciplina e nobilissime motivazioni, approdano alla determinazione di dare qualcosa di utile e prezioso alla comunità sana e a quella di malati. Sicché s’incrociano in un’associazione – Amae Onlus – cadenzando conquiste e importanti iniziative. Tra tutte, Cristina (che presiede il Comitato scientifico) si occuperà di un censimento di pazienti, per capire se ancora sussiste la rarità della patologia. Giacomo coltiverà l’indagine su quanto le parole aiutino i malati (e non solo loro) attraverso l’estrazione di parole chiave dai post del gruppo Fb di riferimento. Per Julian Barnes esisteva il senso di una fine, e figuriamoci per un malato raro. Eppure per qualcuno, a quanto pare, la malattia è stato un nuovo inizio. Unica cura: il coraggio di ricominciare.

Celeste Napolitano, lavora a diverse intensità negli ambiti dell’Editoria e della Comunicazione, vive di parole, e in lei alberga una zebra congenita che le ruggisce dentro

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