SI vales, bene est; ego valeo.

I latini usavano iniziare le lettere con una frase la cui traduzione è Se stai bene è cosa buona, io sto bene, espressione che abbiamo portato anche nella nostra quotidianità. Il nostro incontro con l’altro infatti inizia quasi sempre allo stesso modo con cui cominciava la corrispondenza dei latini.

Ciao, come stai?

Bene e tu?

Bene, grazie.

Proprio come quell’inizio di lettera, che non aspetta una risposta diversa, anche noi ci auguriamo di sentire dal nostro interlocutore (che sia collega, parente o amico), che sta bene, così da potergli rispondere allo stesso modo.

La quaestio però è che noi non stiamo davvero sempre bene. Nonostante in molte occasioni della giornata raccontiamo di star bene, in realtà il più delle volte manifestiamo il contrario di ciò che è veramente il nostro sentire.

Quante volte pronunciamo i nostri pensieri al contrario? È un atto automatico? Siamo stati allenati a domandare e a rispondere in questo modo?

In parte sì, abbiamo imparato a farlo. E se Come stai? è diventata una domanda meramente retorica fatta solo per buona creanza, per ricevere una risposta autentica e spezzare l’incantesimo dell’automatismo (mostrando così un vero interesse) basterebbe ripetere la domanda due volte.

E se mettessimo davanti al Come stai? un avverbio come davvero?

Forse funzionerà, ma non è così scontato. Nel gioco della relazione non siamo mai soli, metà del gioco è in mano all’altro, e non è detto che siamo sempre pronti a ricevere una risposta intrisa di verità. Per questo è giusto analizzare quanto, oltre a farci piacere che una persona stia bene come nella locuzione latina, una risposta più attinente alla realtà ci possa spiazzare, catapultandoci in un diverso stato d’animo (come l’imbarazzo) perché non sappiamo gestire ciò che ci viene rimandato, o addirittura spaventarci perché non vogliamo che qualcuno ci porti a pensare a situazioni da cui preferiamo fuggire.

Questa somma di elementi mi ha riportato alla memoria questa estate, quando un mio caro amico ha deciso di porre fine alla sua vita. Ho ripensato mille volte alle sue risposte ai miei Come stai?, soprattutto ai suoi sorrisi quando mi  rispondeva Bene, grazie.

Nelle risposte automatiche che abbiamo imparato a dare e ricevere, il peso della vita degli altri è una cosa che in un modo o nell’altro ci raggiunge sempre, anche se apparentemente non lo sentiamo arrivare subito.

Per com’è strutturato, il nostro cervello non è capace di non rispondere, dunque una risposta a una domanda la cerca sempre, anche a quelle più scomode e imbarazzanti, ma questo non significa che la risposta verbale corrisponda sempre a ciò che stiamo pensando davvero, grazie a quell’allenamento a cui ci esercitiamo molto presto.

La società ci fa capire con una certa determinazione che è preferibile allontanare le persone problematiche, e questo si evince da ogni messaggio che ci manda, raccontandoci che per essere accettati dobbiamo dare sempre l’idea di essere vincenti, che la nostra vita è grandiosa, quindi va da sé che implicitamente l’altro messaggio veicolato è che i problemi, se li hai, è meglio che li tieni per te e non li condividi.

Una volta che ci siamo allenati a pensare a una cosa e a esternarne un’altra perché socialmente è più accettabile, che ne sarà di quello che sentiamo veramente?

Riusciremo a trovare una persona o una realtà adeguati a ospitare il flusso delle nostre riposte nello stesso senso di marcia in cui ci vengono pensate, anziché al contrario?

Riusciremo a dire che non è vero che va tutto bene, senza per questo essere emarginati?

Se avessimo la possibilità di avere un registratore di pensieri che registrasse le nostre interazioni sociali durante l’arco della giornata, ne uscirebbe probabilmente una narrazione diversa del nostro vissuto, anche se non vuol dire per forza peggiore o migliore. E se oltre a un registratore di pensieri avessimo un misuratore di fatica, di quella che facciamo a corrispondere a questi schemi comunicativi, quanto peserebbe questo sforzo di pensare una cosa e dirne un’altra?

Francesca Pappacena, Psicologa, attivista per i diritti civili, Referente Regionale Croce Rossa LGBT, discriminazioni e violenze. Scrive poesie, brevi racconti senza finale e si interroga su tutto

Please follow and like us:
fb-share-icon