Una conferenza presso la sede di Napoli dell’UNUCI (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia), tenutasi il 3 marzo con la partecipazione del giornalista e storico Fabrizio Carloni, ha ricostruito le fasi meno conosciute e le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia nel luglio del 1943.
La vera storia dello sbarco anglo americano in Sicilia non è quella che una vulgata dominante per decenni ha cercato di farci accettare.
Non è stata una passeggiata per le forze di invasione americane, inglesi e canadesi, così come una storiografia sciatta, intrisa di dicerie e luoghi comuni, ha voluto accreditare a lungo agli occhi dei posteri, con il contorno inevitabile di distribuzione di gomme da masticare e cioccolata, da parte delle truppe alleate, ad una popolazione festante ed in attesa spasmodica dei liberatori.
E’ stato invece uno scontro durissimo, protrattosi per trentasette giorni su un terreno di battaglia intriso di sangue e di dolore spesso negati o sottaciuti.
Ci furono battaglie feroci, bombardamenti aeronavali di inaudita violenza, combattimenti corpo a corpo e quant’altro. Morirono migliaia e migliaia di soldati e di civili e il terreno degli scontri nei primi giorni dello sbarco è stato uno dei più corrosivi e distruttivi, sotto il profilo fisico e psicologico, tra quelli che caratterizzarono il fronte occidentale e la campagna d’Italia in particolare.
Bastano alcuni episodi a fare da paradigma a quanto sopra. Gli inglesi e gli americani, ad esempio, distribuirono alle proprie truppe impiegate nell’invasione (nome in codice: Operazione Husky) manuali comportamentali che invitavano a diffidare della popolazione locale, descritta in termini palesemente dispregiativi, avvezza ad usi e costumi quanto meno incomprensibili e censurabili per la mentalità anglosassone e fonte sicura di pericolose malattie a trasmissione sessuale. Una guida del soldato, insomma, intrisa di pregiudizi che non possiamo non definire ai limiti del razzismo e non tanto diversa, nei confronti della popolazione, da quella che decenni dopo sarebbe stata distribuita alle truppe impiegate durante la prima e la seconda guerra del Golfo e le successive operazioni militari in Afghanistan ed Irak.
Ma non basta. Per aiutare i paracadutisti alleati lanciati sul territorio siciliano, oltre le linee della difesa costiera italiana, a riconoscere i propri commilitoni sbarcati successivamente, una delle parole d’ordine coniate ed utilizzate era uccidi gli italiani, mentre il generale Patton, al comando della settima armata americana, diede ai suoi ufficiali disposizioni inequivocabili, con la oramai famosa espressione: Kill,kill and kill some…Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero! E’ finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!
Ed è quello che accadde in numerosi episodi, poco noti o addirittura ipocritamente negati sino ai primi anni di questo secolo.

Nella notte tra il 9 ed il 10 luglio del 1943, la settima armata americana iniziò a sbarcare settantamila uomini nella sola zona di Licata, Gela e Vittoria, mentre canadesi ed inglesi fecero sbarcare le loro divisioni nella Sicilia orientale.
Molti militari americani eseguirono alla lettera le indicazioni di Patton, come testimoniano la fucilazione dei carabinieri caduti prigionieri in località Passo di Piazza o la strage di settanta soldati italiani e di quattro militari tedeschi che avevano difeso ad oltranza l’aeroporto di Santo Pietro, in località Biscari, prima di arrendersi ed essere passati per le armi. E accanto a queste, altre stragi poco note, anche di civili (tra queste ricordiamo quella della famiglia Mangano). Episodi tutti che solo da alcuni lustri l’indagine storica più rigorosa e intellettualmente onesta ha contribuito a mettere in luce.
E poi i combattimenti, ferocissimi e intensi. Soprattutto nei primi giorni dello sbarco nella zona compresa tra Licata, Gela e Vittoria.
Qui gli scontri divamparono con inaudita violenza lungo le spiagge di approdo e successivamente nell’entroterra. La mattina successiva allo sbarco che aveva travolto le difese della brigata costiera italiana, i carristi e i bersaglieri del Gruppo Mobile E, appoggiati dall’artiglieria, avanzarono, con i pochi mezzi che non erano stati ancora distrutti o bloccati dal fuoco devastante delle batterie navali avversarie che bombardavano la costa, contro la testa di ponte americana che andava consolidandosi a Gela , mettendola comunque in seria difficoltà. Numerosi furono gli episodi di eroismo dei militari italiani in quella occasione. Tra tutti spicca il nome del tenente carrista Angelino Navari che con il solo suo carro riuscì ad avanzare nel centro di Gela occupato e a resistere a lungo e fino al supremo sacrificio della vita, dopo essere giunto a meno di trecento metri dalla spiaggia dello sbarco ed essere entrato nel cuore dello schieramento americano, mettendolo a dura prova.
Alle prime luci dell’alba del giorno successivo, tutto il dispositivo della Divisione Livorno mosse contro il nemico enormemente superiore in uomini, mezzi corazzati e armamenti, con una manovra, ancora oggi studiata e ammirata, che riuscì a stravolgere lo schieramento americano in fase di consolidamento e a farlo collassare sino alle spiagge, al punto tale che gli americani iniziarono addirittura a pianificare il reimbarco perché impossibilitati a reggere ulteriormente. A salvare lo sbarco e a invertire le sorti della battaglia fu ancora una volta la schiacciante superiorità aeronavale degli invasori che sconquassò con il tiro micidiale dei grossi calibri la linea del fronte italiano e le retrovie, costringendo i nostri militari a ritirarsi progressivamente e a cedere il terreno faticosamente riconquistato. E questa volta in via definitiva.

E così, con il sacrificio della Divisione Livorno che fu sul punto di rigettare a mare gli avversari e di cambiare a favore degli italiani le sorti delle operazioni nel sud della Sicilia, termina la fase iniziale di quella dura campagna che la conferenza UNUCI del 3 marzo ha inteso analizzare e che è parte integrante della nostra Storia, alla quale dobbiamo guardare con rispetto e onestà intellettuale, recuperando quella Memoria degli eventi e degli uomini che è stata per troppo tempo facile preda di ricostruzioni fantasiose e partigiane e di vere e proprie rielaborazioni storiche non rispondenti a criteri di oggettività e di verità.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.