Secondo la tradizione cristiana il 25 dicembre è Natale, ma in realtà il giorno della nascita di Gesù non è storicamente accertato. La descrizione dell’evento è presente solo nei Vangeli di Luca e Matteo, giacché gli altri due evangelisti parlano di Cristo ormai adulto. Nel Vangelo di Luca si parla dell’Annunciazione ai pastori che vegliavano di notte per fare la guardia alle loro greggi, e ciò fa escludere che la nascita di Gesù sia avvenuta nel periodo invernale, poiché in Palestina i pastori vivevano nei campi e dormivano all’aperto dall’inizio della primavera fino all’autunno.
Nei primi secoli il 25 dicembre era una data sconosciuta ai cristiani, mentre era importantissima per i pagani, rappresentando la festa dell’adorazione del Sole invitto. Quando finì l’epoca delle persecuzioni e il cristianesimo divenne religione di Stato, si pensò di sovrapporre la festa cristiana a quella pagana per far assorbire pian piano il nuovo culto, essendo Cristo Luce e Sole di giustizia.
Il tema della Natività è stato sviluppato dai Vangeli Apocrifi, cioè quei Vangeli che parlano di leggende e aneddoti legati alla vita di Gesù che però non sono riconosciuti autentici dalla Chiesa perché non in linea con la sua ortodossia. Un esempio per tutti: nei Vangeli di Matteo e Luca non si parla della presenza del bue e dell’asinello nella grotta (che sono però indicati nei Vangeli apocrifi più tardi, tanto che a Napoli c’è una definizione quasi scomparsa che li ricorda, quando ci si riscalda le mani soffiandovi sopra l’alito caldo come dovevano aver fatto i due animali nel dare calore al Bambino: scarfalietto ‘e presepe).

L’immaginario collettivo vuole che il presepe come lo intendiamo oggi sia nato a Greccio nel 1223 (anche se esempi di rappresentazione della Sacra Famiglia sono presenti già nel Medioevo, attraverso gli spettacoli sacri), e la sua istituzione viene attribuita a San Francesco, veicolando l’immagine di un Cristo povero, privo di vesti e porpore regali, nato per lenire le sofferenze di tutta l’umanità. Sarà questo il punto di partenza della sua diffusione nell’arte, ad esempio nella pittura di Giotto all’interno della Cappella di San Francesco ad Assisi.
Successivamente i presepi saranno raffigurati da sculture in legno, fra le quali particolare rilievo ha avuto quella dei Fratelli Alemanno per la chiesa di San Giovanni a Carbonara di Napoli. I pezzi sopravvissuti, circa una ventina, sono conservati al Museo di San Martino. Si tratta di statue lignee, policrome, quasi ad altezza naturale, fra le quali, oltre ai classici personaggi descritti nei Vangeli, ci sono profeti e addirittura due Sibille, quest’ultime presenti in quanto considerate, sin dal Medioevo, profetesse dell’avvento di Cristo (nella quarta Ecloga, Virgilio fa dire alla Sibilla che da una Vergine nascerà un bambino che porterà un’età d’oro al mondo, e nei Libri Sibillini, i Padri della Chiesa interpreteranno alcuni passi come profezia della venuta del Salvatore).
Fra i presepi a carattere sacro, a Napoli si può ammirare la scena rinascimentale scolpita dal grande artista toscano Antonio Rossellino nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardia Monteoliveto, o le figure ad altezza naturale di quello cinquecentesco conservato nella chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina, o quello seicentesco di Santa Maria in Portico a via Martucci.
Verso la fine del Cinquecento vengono introdotti legno e terracotta nella creazione delle figure, cosa che consente l’articolazione degli arti attorno a testa e piedi di terracotta.
Nasce la grande tradizione napoletana: il presepe si laicizza, diventa popolare, e accanto ai personaggi evangelici fanno la loro comparsa figure del vicolo, del mercato, delle osterie, un mondo laico che si muove attorno alla scena sacra. Le figure si riducono di proporzioni, e cominciano a uscire dalle chiese per entrare nella devozione domestica. Lo scenario si arricchisce di personaggi cristallizzati nella loro umanissima quotidianità, la vita di una città con i suoi mestieri, i suoi tipi particolari, pastori che hanno significati simbolici riferiti ad esempio ai mesi dell’anno e ai loro prodotti (il salumiere ricorda gennaio; il venditore di formaggi, febbraio; il banco dei pomodori, luglio; il vinaio, ottobre; il castagnaio, novembre; il pescivendolo, dicembre) e nel Settecento questo tipo di rappresentazione raggiunge la sua stagione d’oro. Sul presepe si proietta un immaginario Paese di Bengodi fatto di carni macellate, frutta fresca, latticini e caciocavallo, frutti di mare e capitoni, spaghetti e pane; è la fame atavica di un popolo che sogna tutto quel ben di Dio, e non potendolo sempre mettere sulla tavola, almeno lo mette sul presepe. Alla grande festa partecipano i cortei degli Orientali nei loro costumi esotici, con le bandiere e gli strumenti musicali, i Magi che portano oro e gioielli su cavalli riccamente bardati. Probabilmente questa ricca processione è legata all’arrivo a Napoli, nel 1741, dell’ambasceria turca, che portava i molti doni inviati dal sultano di Costantinopoli a Carlo III a seguito di un trattato concluso fra i due sovrani, e che impressionò moltissimo i napoletani. E fu proprio Carlo III a dare impulso a quest’arte presepiale di scultura minore che rappresenta zingare, giocatori, cantinieri, una Napoli con la sua umile gente trasportata in un mondo di sughero.
Le stesse dame di corte si dilettavano a cucire i vestiti per le figure utilizzando fili d’oro, broccati, sete e pietruzze colorate. I pastori venivano creati da abilissimi artisti, fra i quali spicca Giuseppe Sammartino, l’autore del Cristo velato nella Cappella Sansevero.
La tradizione si espresse anche con altre figure ad altezza naturale, come quelle che si possono vedere nella chiesa del Gesù Vecchio in via Paladino, dietro l’università: il cosiddetto presepe di Don Placido.
Grazie all’amore dei Borbone per i presepi, tutte le famiglie nobili cominciarono a ordinare i pastori per i loro presepi agli artisti e agli artigiani.
Quando Carlo III divenne re di Spagna, esportò la tradizione napoletana a Madrid, così pure i nobili spagnoli ordinarono i pastori agli artisti napoletani.
Con la fine del regno borbonico anche i presepi persero d’importanza e molte collezioni, anche per necessità economiche delle famiglie nobili, si dispersero e furono acquistati da collezionisti stranieri. I più belli (sono davvero straordinari) visti all’estero sono quelli del Museo diocesanodi Frisinga, a mezz’ora da Monaco di Baviera, che si pensa sia appartenuto a Ferdinando IV quando era a Palermo, quello del Bayerische Museum di Monaco di Baviera, e quello della Fondazione March a Palma di Maiorca, in centinaia di pezzi.
Una volta il presepe non si comprava già realizzato, ma tutta la famiglia partecipava alla sua costruzione: si usava una carta particolare che veniva bagnata con la colla di pesce (i più bravi lavoravano con il sughero) per arricciarla in modo da dare la sensazione di una montagna all’interno della quale si scavava la grotta del Bambino Gesù, e sulla quale venivano messi fiocchi di cotone per simulare la neve, un pezzetto di specchio rotto diventava un laghetto, il muschio strappato dai muretti umidi diventava prato e un rivolo di carta argentata il fiumiciattolo. Poi veniva il momento più emozionante: si apriva la scatola contenente i pastori, avvolti nella carta per proteggerli perché non erano di plastica ma di terracotta, e ogni tanto dallo scarto usciva che si era rotto il braccio di San Giuseppe o che si era staccato l’orecchio dell’asinello, e allora subito a cercare la colla per attaccare i pezzi! Le figure erano collocate pian piano, e soprattutto la massima attenzione era rivolta alla Madonna e a San Giuseppe (il Bambino doveva aspettare la Vigilia). Una volta finito si diceva una preghiera, in attesa della processione che si faceva la sera della Vigilia. In quell’occasione, tutti i membri della famiglia si mettevano uno dietro l’altro in processione verso il presepe cantando Tu scendi dalle stelle, e il più piccolo di casa era incaricato di porre Gesù Bambino nella bambagia. Questa era la tradizione delle vecchie famiglie, quando si giocava a tombola e quando l’albero di Nataleera considerato estraneo allo spirito religioso.
Eppure, volendo, un legame fra presepe e albero si può trovare: secondo una leggenda, un giocoliere andò ad adorare Gesù nella grotta ma era povero, e l’unica cosa che poteva fare era rallegrarlo con la sua abilità con le palle colorate che faceva ruotare per aria passandole da una mano a un’altra. Il Bambino sorrise divertito, ed è per questo motivo che le palle colorate che addobbano l’albero di Natale rappresentano le risate di Gesù Bambino.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia