Tempesta madre è il terzo romanzo di Giovanni Solla. Pubblicato nel 2021 è stato il primo per Einaudi. Il libro affronta una tematica profonda e universale: i rapporti familiari e, in particolare, quello tra madre e figlio. Tra presente e ricordi Jacopo, un uomo di trentuno anni, protagonista del romanzo, racconta la sua vita e quella dei suoi genitori. La vicenda si svolge principalmente in un rione popolare di Napoli nettamente in contrasto con l’educazione e il tono di vita di Jacopo e di sua madre e coinvolge vari luoghi secondari come la scuola, l’ufficio in cui Jacopo lavora e quelli in cui si ritrova con donne e conoscenti. Una trama composta da riflessioni a volte un po’ ciniche (quel tanto che basta a far scaturire un sorriso di compiacimento al lettore), analizza dal punto di vista di un figlio i comportamenti di una tempesta madre. Scrivere che il titolo lascia presagire ciò che accadrà è molto riduttivo, in quanto la trama è intensa, commovente e potrebbe davvero riguardare ognuno di noi.
La lettura ha prodotto molte riflessioni e una delle evidenze del romanzo è la passione per la scrittura che Jacopo ha da sempre, al punto da rifugiarsi nella cella frigorifera della macelleria di suo padre per annotare i suoi pensieri sulla carta in cui si avvolge la carne…
Scrivere mi serve per vedere il meccanismo delle cose. Le parole sono i muscoli e le ossa. A volte ti sembra che nella vita tutto succeda senza un motivo, invece il motivo c’è sempre, solo che all’inizio non lo vedi. Se una cosa la puoi scrivere, allora vuol dire che la puoi capire.
Ancora posso ricordare il rapporto di Jacopo con le donne: qualcuno lo giudica un eterno bambino ma egli non ha assolutamente comportamenti infantili. Probabilmente non riesce a costruire i legami.
Non mi dilungo nella recensione perché davvero desidero soffermarmi di più con l’autore che, innanzitutto, ringrazio per aver scritto un libro così bello, impeccabile, tra l’altro, nello stile e nella forma.
Nel suo romanzo lei ricostruisce la vita del protagonista attraverso la narrazione del rapporto che lui ha con sua madre, principalmente, ma anche con il padre. Nella figura della madre di Jacopo io ho visto una donna molto infelice che, trovandosi senza più il suo lavoro, viene schiacciata dal matrimonio e dalla maternità. Non può realizzarsi, non può acquistare una macchina, né pagare il fitto di casa, riesce solo a staccarsi da suo marito, profondamente diverso da lei ma non cattivo. Così vive di rimpianti ed è ammalata. Ama la musica e la poesia e insegna a suo figlio ad esprimersi sempre in italiano pur vivendo in un rione napoletano popolare e non altolocato. La personalità della madre, con le relative convinzioni e passioni, saranno determinanti nella vita di Jacopo. Questo è frequente anche nella realtà. Non so se ciò che lei ha scritto è venuto fuori da studi, esperienze o pura fantasia ma sono curiosa di saperlo. Ce ne parla? Vorrei, inoltre, sapere se lei definirebbe il suo Tempesta madre un romanzo di formazione.
Iniziando dalla seconda domanda, le rispondo che mi piacerebbe molto definire di formazione il mio romanzo. In realtà credo che ogni romanzo lo sia in quanto in essi vediamo sempre un protagonista che, seguendo un percorso temporale, subisce nel corso della narrazione un’evoluzione. In questo caso c’è una parabola accentuata dal punto di vista anagrafico e della formazione del carattere che prima si determina e poi si autodetermina. Questo è ciò che accade in quasi tutti i romanzi anche quando la parabola è più stretta e, ad esempio, tutto si svolge in un brevissimo periodo di tempo. Perché si possa definire una storia, i personaggi devono sempre avere una evoluzione e, se non è il personaggio a crescere, è il lettore che arriva sempre un passo più avanti rispetto a dove ha iniziato. Se il lettore non avverte questa crescita allora il romanzo non ha funzionato ma quasi sempre avviene. Ovviamente c’è un’efficacia estetica diversa da romanzo a romanzo che dipende da cosa e quanto è percepito dal lettore e da come l’autore ha deciso di mettere in atto la crescita. In conclusione, magari il mio non è un romanzo di formazione propriamente detto eppure mi piace definirlo tale perché ho sempre amato il genere in cui troviamo un protagonista acerbo che, vivendo varie peripezie, acquisisce un’impronta, inizia a fare le prime scelte fino a che compie il proprio destino. Quindi per me lo è sicuramente e se non lo è mi piace “intrufolarmi” in questo genere in quanto lo ritengo una categoria estremamente importante della nostra letteratura.
In più ho visto anche che Tempesta madre è stato presentato in alcune scuole e che i ragazzi hanno partecipato con grande interesse.
Sì, infatti, e questo non me lo aspettavo. Il romanzo è stato scelto da alcuni insegnanti che lo hanno proposto nelle loro scuole. Ho avuto un incontro anche con duecento ragazzi e per me è stato incredibile. È stato un regalo prezioso vedere che i ragazzi erano molto coinvolti dal libro e sono rimasto davvero contento. Al di là dell’aspetto narcisistico della soddisfazione credo sia importante che i ragazzi abbiano letto un romanzo che è nato per gli adulti e che sicuramente dà loro la possibilità di arrivare a qualcos’altro. Quindi sono stato contento di fare parte della formazione di questi ragazzi e durante gli incontri ho suggerito loro di leggere tanti libri in quanto questo è un momento molto importante.
Per quanto riguarda la genesi del romanzo io penso che sia stata la voce del protagonista a farsi sentire così forte da poi generare una storia. È arrivato per primo il protagonista, Jacopo, e si è presentato contemporaneamente sia come adulto che da bambino. È stata questa la sua forza e la mia fortuna. Quindi mi sono trovato questa storia che evidentemente avevo dentro da tanto tempo che è venuta fuori attraverso di lui, qualcosa che non immaginavo, ed è totalmente ambientata nel mio quartiere perché io sono nato e vivo a San Giovanni a Teduccio nella periferia est di Napoli e di fronte alla mia abitazione vi sono le case popolari dove è ambientato il romanzo. Nel libro si chiama il rione delle mosche ma in realtà qui è conosciuto come il Bronx di San Giovanni a Teduccio. In queste case popolari abitano circa 10.000 persone, quindi una vera e propria città nella città. Io ho riportato la struttura di questi palazzi cioè come sono fatti i ballatoi, le scale, gli spazi, desiderando anche rappresentare la responsabilità progettuale per aver costruito due edifici di quel genere a distanza di un metro all’altro con un’architettura, direi, quasi di tipo carcerario e per far comprendere, appunto, come la costruzione debba essere inserita in quello che è l’ambiente urbano. Tra l’altro questo è un quartiere che affaccia totalmente sul mare, è molto avvantaggiato dal punto di vista geografico, ma storicamente è andato sempre tutto molto male.
Poteva essere sicuramente bellissimo…
Sì, abbiamo cinque spiagge. Da casa mia vedo il mare il cui colore è verde a causa dell’inquinamento. Uno dei paradossi, che ho poi utilizzato per l’intera narrazione, è quello di raccontare uno scorcio di vita che, in realtà, ha dei presupposti diversi da quel quartiere. Come faceva notare lei nella domanda, il bambino con la madre, Jacopo con la “segretaria”, parlano in italiano, ascoltano musica classica, sono delle persone educate, si pongono dei problemi tecnicamente borghesi come è il loro retaggio rispetto, invece, al luogo in cui sono andati ad abitare. Ciò crea di per sé una distanza con la realtà che può avere un registro sia comico che drammatico. Questo è stato un espediente che mi ha aiutato nella scrittura, anche perché io non volevo raccontare il solito quartiere napoletano, la vita che immaginiamo si svolga normalmente in un quartiere come quello: il ladruncolo, il sotterfugio e via dicendo. Volevo raccontare, quindi, una Napoli differente perché sono convinto che la città di Napoli narrativamente abbia le spalle così larghe da poter sostenere molti tipi di narrazione e non solo quella stereotipata, archetipa che vediamo ultimamente in cui c’è il napoletano furbo o simpatico, la pizza, il mandolino e il resto. Sono stanco e convinto che si possa parlare anche di altri aspetti che appartengono a questi quartieri. Nonostante ci siano i poveri o i delinquenti possiamo provare a parlare d’altro. Ho sempre vissuto qui, non sono un santo ma sono lontano da un certo tipo di realtà e di azioni. E come me tanti altri.
Io penso che la levatura della letteratura napoletana non esprima soltanto la pizza, il mandolino o lo scippatore anzi è stata sempre, e continua ad esserlo, esempio e modello di superiorità nonché espressione di splendide donne e uomini che sono dei grandissimi autori.
Assolutamente sì, e sono coloro che mi hanno formato, ma mi riferisco più che altro allo stereotipo mediatico, all’immaginario collettivo che in questo momento ha rappresentato Napoli semplificandola con l’immagine del napoletano che ha problemi ma che vive nella città più bella del mondo. Non riesco ad accettare questo tipo di visione perciò volevo davvero distanziarmi dal racconto televisivo e anche da quello che vedo sui social network, un racconto zuccheroso, lontano da quello che siamo. Gli autori napoletani sono incredibili, lo sono ancora e riescono a raccontare ognuno la città attraverso il proprio registro.
Jacopo da bambino ha l’abitudine di annotare i suoi pensieri. La scrittura lo salva dalle psicosi di sua madre incoraggiandolo ad avere una vita propria almeno quando scrive. Siamo, quindi, al ruolo della scrittura come mezzo di espressione, comunicazione e consolazione. Quindi le chiedo qual è il suo rapporto con la scrittura?
Gli scrittori mi hanno salvato la vita in quanto il processo della scrittura avvicina alla realtà. Quando provo a scrivere qualcosa ho innanzitutto la necessità di purificare la realtà, cioè di togliere tutti gli elementi superflui dal pensiero e ordinarli scartando un miliardo di parole possibili e scegliendo, infine, l’unica frase per raggiungere quell’elemento. Ed è esattamente quello che faccio io con la scrittura, in quanto mi aiuta a migliorare la mia visione del mondo. Ad esempio, durante la conversazione il mio processo della costruzione della frase non raggiunge la precisione, mentre ciò avviene nella scrittura in quanto scrivo, riscrivo, cancello, ritorno.
Impiego molto tempo e ho la costanza di ritornare perché sono maniacale, per cui alla fine riesco a dare un qualcosa di asciutto che può non piacere, ma che non è ridondante. Lo faccio sostanzialmente per me, in quanto devo ordinare il pensiero. Alcune volte ho scritto qualcosa e poi, nella riscrittura, esprimo esattamente l’opposto perché mi rendo conto che avevo sbagliato non tanto come scrittore ma come essere umano. Stavo, cioè, scrivendo qualcosa di falso in cui non credevo veramente o che avevo paura di affermare fino in fondo. Per questo motivo scrivere mi aiuta, perché sono un essere umano che utilizza questo processo per vedere la realtà. Fino a che non riesco a scrivere qualcosa che mi è accaduto io non l’ho capita ancora sul serio.
Io ho una teoria secondo la quale la scrittura comprende anche dei processi fisici. Penso, infatti, che il fatto che si scriva con le dita, indipendentemente da che si utilizzi la penna o la tastiera, implichi che il pensiero attraversi prima tutto il corpo, partendo dal cervello fino ad arrivare alle estremità. Scrivere con una matita o una penna ricorda il movimento di un sismografo, come se facendolo si registrassero i terremoti interiori. C’è qualcosa nella realizzazione della parola che combacia con il concetto. Per questo provo e continuo sempre a lavorare su una frase perché mi rendo conto che sto affrontando un argomento interessante ma non lo sto scrivendo bene e che anche la scelta delle parole, tenere o no una virgola, per me fa una differenza enorme in quanto la scrittura deve assomigliare alla materia, deve essere qualcosa che veramente dà una sensazione corporea a chi la legge. Per questi motivi provo a non utilizzare mai cliché prediligendo parole “antipatiche”, cerco dei dizionari specifici che mi possano appunto indicare la peculiarità delle parole come ad esempio ho fatto per la descrizione dei coltelli della macelleria in quanto dire mannaia napoletana è tutt’altro che dire coltello.
Durante la lettura, infatti, ho notato questa accuratezza nella scelta delle parole, nella forma e anche nella punteggiatura. Lei ha dato importanza a tutto quello che ha scritto, non sono parole gettate lì per creare la trama, un intreccio, ma sono parole scelte con appropriatezza.
In realtà è quella che dovrebbe essere una prassi nella vita per tutto ciò che creiamo.
E veniamo ora allo Jacopo adulto, quello che partecipa ai corsi di formazione pomeridiani per rimorchiare le colleghe divorziate. Jacopo ha un suo modo di relazionarsi con le donne che non è mai volgare, è sicuramente analitico, si lascia coinvolgere poco, è quasi refrattario fino a quando non incontra una donna per la quale si lascerebbe davvero andare. O forse no…dato che sappiamo ciò che accade. Potrà mai essere felice Jacopo? Riesce a continuare a immaginarlo per un attimo?
L’amore è la parte misteriosa del libro in quanto è il più misterioso dei sentimenti. Ci sono alcuni elementi che noi dobbiamo prendere così come sono e questo è ciò che credo possa essere l’amore tra due persone. È un oggetto sentimentale perché coinvolge la parte più profonda e antica di noi e anche in un incontro fugace la chimica che si produce in quel momento è così complessa da descrivere che lo si può fare in maniera superficiale o può diventare una sorta di pornografia sentimentale.
Non saprei mai creare una descrizione meccanica dell’amore. Nella mia esperienza personale è come quando cade una meteora sul Pianeta perché ti arriva qualcosa all’improvviso e te la prendi così com’è. Quindi così ho descritto questo evento incredibile nella vita di Jacopo: conosce questa donna, lui si innamora anche se non so, appunto, se è amore o no, ma c’è un’attrazione forte. Forse perché magari lei rappresenta l’opposto di sua madre? Chissà. Potrebbero esserci in gioco queste componenti edipiche, infantili, ma in realtà non so spiegarlo.
Se lui possa essere felice o no in seguito non saprei in quanto la definizione di felicità mi è sempre mancata. Conosco esattamente che cos’è l’infelicità perché non sono capace di rendermi conto se sono felice mentre capisco quando non lo sono. L’infelicità è una situazione altamente circostanziata, la felicità non lo è mai, è sempre una situazione vaga, una leggerezza indescrivibile che può diventare anche noia e che io riconduco alla mancanza di infelicità. Penso che Jacopo non possa essere mai felice perché è come se avesse sempre bisogno di un piccolo dramma a portata di mano, di una piccola infelicità, in quanto, come diceva anche lei all’inizio della domanda, va a cercarsi storie che non portano da nessuna parte. Sostanzialmente gli va bene e gli sta bene così, ma penso che non potrà mai essere felice. Immaginando Jacopo tra qualche anno lo vedo ancora con un’altra donna perché ha necessità di mettere in moto questo meccanismo interiore.
Il suo libro mi è molto piaciuto e vorrei sapere se sta lavorando a qualcos’altro.
Sì, sto lavorando a una storia nuova. Non so come andrà, quanto tempo impiegherò però sono assolutamente al lavoro.
Bene, allora avanti così e buon lavoro a Giovanni Solla.

Maria Paola Battista, Sociologa, editor e giornalista, scrive recensioni di libri e interviste agli autori per varie testate.