Terapia del dolore: la relazione medico-paziente

Quanto è difficile instaurare un rapporto medico-paziente per il trattamento del dolore cronico? Lo abbiamo chiesto a Maria Teresa Di Dato, algologa del reparto Terapia del dolore dell’ospedale dei Colli – Monaldi.


Dottoressa, come si crea un rapporto col paziente ambulatoriale di Terapia del dolore?

Ci sono caratteristiche comuni?

E se sì, quali?

Bisogna innanzi tutto fare una distinzione fra il paziente che afferisce in ambulatorio per una problematica di dolore cronico di natura benigna e il paziente con dolore cronico oncologico, in quanto questo condiziona inevitabilmente la modalità di approccio al paziente. Noi siamo una Hub di Terapia del dolore e siamo specializzati per tutte le tipologie di dolore, e trattiamo i pazienti anche con terapia interventistica; la grossa difficoltà che incontriamo nell’interfacciarci coi pazienti è dovuto proprio all’aspetto psicologico legato alla tipologia di dolore di cui soffrono.


Perché?

Perché il paziente con dolore cronico oncologico per alcuni aspetti risulta essere molto spesso rassegnato, all’ineluttabilità del dato, per cui è un paziente da motivare, anche per la tecnica chirurgica eventualmente da proporre; attorno al paziente si crea una rete di caregivers, di familiari con proprie dinamiche interne, che tendono a intervenire nelle decisioni, il che comporta il dover interagire anche con loro e il coinvolgimento di altri colleghi, lo psicologo e l’oncologo in particolare.

Poi c’è la numerosa categoria formata da pazienti che afferiscono in ambulatorio per dolore cronico benigno su cui gravano altre problematiche; in quanto questa tipologia di pazienti convive con la cronicità, sapendo che è una patologia a lungo termine, cosa che non accade per il paziente oncologico a causa della citata ineluttabilità del dato, per cui il cronico benigno rappresenta una vera e propria sfida, non solo per la terapia farmacologica, della terapia interventistica eventualmente da affrontare, ma soprattutto per poter garantire il superamento del social burden, di un paziente attivo socialmente che gradualmente perde la propria autonomia perché affetto da dolore cronico che lo rende invalidante e impossibilitato a svolgere le attività quotidiane .

Quindi ci troviamo quotidianamente il conflitto di gestire entrambe le tipologie di pazienti, estremamente diverse ma per un verso molto simili. In primis dobbiamo curare la psiche, da ciò che si aspettano dalla vita e dai trattamenti, e quelle poi che sono le aspettative a medio e lungo termine per ciascuno di loro. In reparto col dottore Papa lo facciamo ormai da più di quindici anni, per cui abbiamo acquisito le tecniche e le strategie ideali per gestire l’approccio col paziente.


Come si interviene ad un primo accesso?

Si comincia con l’approccio anamnestico, fisico, con la formulazione di una corretta terapia farmacologica, a cui segue inevitabilmente la selezione di quelle che possono essere strade interventistiche per migliorare la qualità della vita, per entrambe la categoria di pazienti; fortunatamente nella nostra azienda siamo partiti già molti anni fa ad affrontare le varie sfide per la gestione del dolore, grazie all’attenzione e alla lungimiranza dei dirigenti.


L’aderenza terapeutica per la terapia farmacologica come si presenta?

I pazienti eleggono dei FANS che considerano non antinfiammatori ma analgesici?

C’è resistenza al cambio di terapia?

Questa è una delle nostre battaglie quotidiane. Abbiamo vissuto una fase iniziale di terapia del dolore basata su cortisonici, FANS, paracetamolo; poi siamo passati con la legge 38 del 2010 a una terapia mirata con oppioidi supportata da grandi evidenze scientifiche nazionali e internazionali. C’è stato un punto in cui la scelta dei farmaci in algologia era fin troppo inflazionata e neanche eccessivamente oggettiva; sicuramente convincere i pazienti della bontà di alcune scelte terapeutiche fa parte del nostro approccio ambulatoriale quotidiano; e soprattutto della modalità della relazione col paziente, se si affida e riesce a cogliere anche gli effetti collaterali negative di alcune scelte individuali; noi siamo centro prescrittore sia per gli oppiacei che per i cannabinoidi, e fortunatamente stiamo riuscendo a ottenere una buona alleanza terapeutica. Spesso dobbiamo scardinare le abitudini pregresse e convincerlo nella bontà di una nuova strategia.


E per quello che riguarda una eventuale tecnica interventistica invasiva, come reagisce il paziente?

Esistono domande ricorrenti, emozioni come la paura e l’ansia o l’accetta di buon grado?

Anche questo aspetto prende gran parte della nostra attività ambulatoriale. Siamo un team esperto delle tecniche mini invasive praticate, per cui riusciamo a spiegare con semplicità di cosa si tratta e, con una diagnosi correttamente eseguita, la risposta del paziente è di solito positiva. Di certo incide anche il background culturale del soggetto, se è troppo basso ha difficoltà nel comprendere, se è troppo informato, magari su internet, emergono altre difficoltà.


La relazione coi colleghi come si sviluppa?

I pazienti sono inviati da loro?

Quanto spesso interagite con loro?

Fondamentalmente c’è un’estrema eterogeneità dei pazienti che afferiscono al nostro ambulatorio, sia da colleghi specialisti, che dal medico di medicina generale. Ma molti vengono da noi per propria scelta, perché riconoscono nell’algologia una possibilità terapeutica valida per la risoluzione del proprio dolore, di natura benigna.


La comunicazione sulla terapia del dolore com’è?

Molti pazienti leggono recensioni, fanno ricerche sul WEB, scoprono patologie e tecniche; spesso vengono da noi con una loro diagnosi e dobbiamo spiegare che non è così, che i medici siamo noi. Di positivo c’è la conoscenza abbastanza diffusa tramite internet di tecniche interventistiche come la radiofrequenza pulsata e la neurostimolazione midollare, per fare due esempi, che in qualche modo facilitano la comunicazione col paziente, che è già informato superando così ansia e paura, anche se ci troviamo di frequente a dover scardinare alcuni preconcetti sulla tecnologia.


Queste informazioni sono più del paziente o del caregiver?

Chi fa le ricerche?

Noi anestesisti siamo formati in ambito algologico; se visitassimo 100 pazienti con la medesima diagnosi, medesime caratteristiche e medesime proposte terapeutiche avremmo 100 reazioni diverse. Il rapporto è molto variegato, e ci sono molte variabili. Non te lo insegna né lo studio di medicina né la scuola di specializzazione, ma la pratica quotidiana. C’è chi arriva già con una diagnosi pronta; c’è quello che si accompagna con un caregiver abbastanza determinato, c’è chi si affida…


Quanto sarebbe importante il supporto di uno psicologo al primo accesso?

Importantissimo, il ruolo dello psicologo è fondamentale, sia per il paziente con dolore benigno che in quello oncologico.

C.N.

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