A proposito dell’evoluzionismo
Il mito sumero della creazione delle Teste nere e il mito ebraico della creazione dell’Adamo stanno a significare la memoria di rifondazioni dell’umanità avvenute per opera rispettivamente degli Anunnaki e degli Elohim; il mito ebraico data la rifondazione e la nascita di Adamo a poche migliaia di anni fa, mentre il mito sumero, da cui quello ebraico deriva, fa risalire la rifondazione a circa 270.000 anni fa.
Gli antropologi ritengono d’aver rintracciato l’homo erectus nell’uomo di Pechino, vissuto circa 400.000 anni or sono, mentre l’homo neanderthalensis sarebbe comparso in Europa 200.000 anni fa e l’homo sapiens 160.000 anni fa in Etiopia. Gli studiosi attualmente ritengono che l’uomo, lo scimpanzé e il gorilla siano cugini e che l’orango sia un altro cugino, un po’ meno stretto, tutti comunque discendenti da un ominide comparso già sei milioni di anni or sono. Tuttavia un rompicapo per gli studiosi è il fatto che mancano alcuni anelli nella catena, da essi ipotizzata, che dall’ominide giunge sino all’uomo.
Anche per gli studiosi dell’evoluzionismo sussiste il medesimo problema, per cui il Wallace, ad esempio, co-inventore della teoria evoluzionistica con Darwin, ammise l’intervento di un fattore esterno per colmare le lacune esistenti nella teoria. Come poté realizzarsi il salto cognitivo di homo sapiens? Darwin giudicava soddisfacente spiegare l’acquisizione delle capacità cognitive della nostra specie come una conseguenza della pressione esercitata dalla selezione naturale sui nostri precursori nel corso di lunghi periodi di tempo. E gli scienziati di oggi, a quanto pare, per lo più sono d’accordo con Darwin.
Wallace, però, non riusciva proprio a capire come la selezione naturale avesse potuto colmare la lacuna tra lo stato cognitivo umano e quello di tutte le altre forme di vita. Al contrario gli erano chiare l’ampiezza e la profondità della discontinuità tra lo stato cognitivo simbolico e quello non simbolico, e capiva come il primo non potesse essere semplicemente un’estensione del secondo. Ostacolato dalla propria incapacità di coinvolgere la selezione naturale, Wallace finì per attribuire a un agente soprannaturale l’origine dell’intelletto moderno. Per questa sua interpretazione Wallace è da allora alla berlina – ma in realtà la sua intuizione fondamentale è molto acuta. (cfr. Ian Tattersall, Il mondo prima della storia, pag. 133-134)
I miti, con estrema evidenza quello sumero, dichiarano esplicitamente che un fattore esterno intervenne nell’evoluzione dell’uomo. Il mito sumero fa risalire la rifondazione dell’umanità a un intervento genetico, risalente a circa 270.000 anni fa, sull’uomo primitivo che pasceva erbe e beveva l’acqua nei fossi. È assai suggestivo che essi abbiano operato su un ominide: gli uomini non sapevano mangiare il pane, non sapevano coprirsi con vestiti, gli uomini andavano a quattro zampe, mangiavano erba come le pecore, bevevano acqua dai fossi… allora gli dèi soffiarono nell’uomo lo spirito vitale (G. Pettinato, I Sumeri, pag. 326).
Su un punto sono tutti d’accordo…
Più di 2.000 anni or sono, Aristotele attribuì agli esseri umani la posizione più elevata su una grandiosa «scala dell’essere» che in definitiva li collegava con le forme di vita più modeste – come lo strato di impurità sull’acqua di uno stagno – nella posizione inferiore. Nel Medioevo questa linea fu riportata in auge da studiosi che ponevano in prima posizione, assieme a Dio e agli angeli, gli esseri umani; e al di sotto le altre forme, dai primati in giù. I paleo-antropologi hanno ereditato questo concetto nell’assumersi la responsabilità di interpretare la documentazione fossile e alla fine hanno scoperto che andava bene anche a loro. (I. Tattersal, Il mondo prima della storia, pag. 21)
L’uomo è l’apice della piramide evoluzionistica?
Attualmente anche l’Accademia sta considerando con i canoni della scienza probabilistica la possibilità che la vita possa essere evoluta, oltre che sulla Terra, anche altrove nell’universo; specie nell’ultimo decennio, a seguito della scoperta di pianeti in altri sistemi stellari, che hanno le caratteristiche di abitabilità (particolarmente importanti erano considerate le temperature che permettono la presenza di H2O allo stato liquido, ma ora altre sostanze, oltre l’acqua, vengono prese in considerazione come elementi diffusori), si va rafforzando la convinzione che la «vita intelligente» possa essere presente anche al di fuori del nostro pianeta.
È lecito ora chiedersi quali forme possa aver assunto altrove la vita intelligente. Numerosissimi fattori possono ovviamente condizionare la nascita e l’evoluzione della vita: solo per dare un’idea, basti pensare alle varie possibilità di fonti energetiche, alla forza di gravità, etc.… A noi piace pensare che le forme dell’uomo rappresentino comunque e dovunque un passaggio obbligato nell’evoluzione della vita intelligente, nel senso che l’uomo rappresenti uno stadio evoluzionistico.
Pensiamo che non possa esistere nell’universo un orologiaio che non abbia il pollice opponibile alle altre dita; che anzi l’acquisizione della funzione dell’evopponibilità costituisca essa stessa l’innesco d’un formidabile processo cognitivo, anche se, bisogna ammettere, alcune scimmie oltre il pollice hanno anche l’alluce opponibile.
L’evoluzione, un’ipotesi senza alternativa?
L’evoluzione animale rimane un’ipotesi storica a carattere generale, sostenuta da dati sufficienti e dalla mancanza di una alternativa; nei particolari, essa solleva un numero spaventoso di interrogativi per i quali non abbiamo risposte. La nostra ignoranza rimane profonda, ma non è sorprendente. (G. de Santillana – H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, 2003, pag. 96)

OMBRE SULL’EVOLUZIONISMO
Nel 1.859, fu pubblicata l’opera rivoluzionaria di Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale, che radicalmente rivolta tutte le credenze del creazionismo. Del resto già nel 1.809 il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck aveva scartato l’idea della natura fissa e immutabile delle specie viventi e proposto una visione della storia della vita in cui specie ancestrali davano origine a specie nuove e diverse (Ian Tattersall, Il mondo prima della storia. Dagli inizi al 4.000 a.C. pag. 2-3).
L’evoluzione dalla scimmia antropomorfa all’homo sapiens ha dovuto registrare la mancanza di anelli nella catena, che Darwin si aspettava continua, della discendenza. Così Ian Tattersall: la documentazione fossile, diventata assai più ricca, continuava a rifiutarsi ostinatamente di svelare le serie previste di forme intermedie. La presenza di tali lacune ha convinto gli assertori dell’evoluzionismo ad ammettere una sorta di evoluzione a scatti ovvero ad equilibri punteggiati.
La funzione segue la forma?
Il linguaggio sarebbe stato l’innesco per l’acquisizione delle funzioni cognitive dell’uomo moderno: come il pensiero, il linguaggio richiede processi mentali di formazione e di elaborazione di simboli, e la nostra capacità di ragionamento simbolico è quasi inconcepibile in sua assenza. Dal punto di vista biologico la funzione deve necessariamente seguire la forma. Tuttavia a proposito della comparsa del linguaggio si è visto come l’anatomia fosse già pronta al linguaggio circa 600.000 anni or sono. Come mai allora la funzione del linguaggio ha tardato così a lungo? Perché così lunghi tempi di attesa per la funzione, se la forma era già pronta?. (I. Tattersall, The Human Odyssey, Prentice Hall, New York 1993, pag. 134)
Così ancora G. Sermonti (opera citata, pag. 144): Labandeira e Sepkoski hanno esaminato i fossili di più di 1.200 famiglie di insetti per ricostruire la storia dei loro apparati boccali. Ci si attendeva che questi cominciassero a diversificarsi dopo l’espansione delle piante fiorite, che proponevano i problemi per cui gli insetti dovevano trovare le soluzioni. Ma le piante da fiori si sono espanse negli ultimi cento milioni di anni, mentre gli insetti hanno aumentato la loro diversificazione a partire da 320 milioni di anni fa […]. L’85 per cento delle famiglie d’insetti c’erano già da milioni di anni prima che i primi fiori sbocciassero […]. Come poterono allora quegli apparati boccali complessi e delicati trovarsi lì, milioni e milioni di anni prima di entrare in funzione?
In realtà l’Evoluzionismo è più un paradigma, o una metodologia, che una teoria. Per i suoi moderni sostenitori è un processo che è già avvenuto per cause naturali, cioè fisicochimiche, cause che ne costituiscono la definizione. Il fatto che esso sia stato continuo, incessante, graduale e migliorativo, non interessa molto i suoi cultori e alcuni ne dubitano, altri lo ritengono irrilevante. (Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin – Ombre sull’evoluzione, Rusconi, pag. 8)
I cromosomi sono in coppia. L’uomo ne ha 23 coppie, lo scimpanzé ne ha 22. Il cavallo ne ha 32, l’asino 31. La zebra ne ha 16. Eppure, se sottraiamo un cromosoma all’uomo non avremo uno scimpanzé; né avremo un asino sottraendo un cromosoma al cavallo; né due zebre fanno un cavallo. Appare chiaro che non c’è relazione evidente tra numero di cromosomi ed evoluzione. Né un uomo può considerarsi scimpanzé al 98%, sulla scorta del proprio corredo genomico. Né per il medesimo motivo ritenersi quasi topo. Anche il confronto della quantità di DNA espresso in numero di nucleotidi non spiega la storia evolutiva degli organismi. (J. Marks, Che cosa significa essere scimpanzé al 98%, Feltrinelli, 2003)
La scimmia dall’uomo, non l’uomo dalla scimmia?
Adottata la datazione paleontologica delle storie dell’uomo e del cavallo, che sono iniziate insieme e trascorse in parallelo, si constatava che le molecole del destriero erano decadute sette volte più rapidamente di quelle del cavaliere. Da quando la linea umana si era distaccata da quella dello scimpanzé, gli ominidi avevano registrato 13 refusi nel DNA mitocondriale, contro 34 dello scimpanzé. Questo stava a significare che, da un punto di vista chimico, l’uomo era molto meno variato rispetto al comune antenato di quanto fosse la scimmia. In termini canonici questo voleva dire che l’uomo era molto meno evoluto degli scimmioni africani, e che quindi il comune antenato era piuttosto uomo che scimmia […]. (G. Sermonti, Dimenticare Darwin, Rusconi, pag. 73)
La teoria dell’evoluzione è così scientificamente documentata e inattaccabile? Una recente interpretazione archeologica dimostrerebbe il contrario. A dispetto delle più consolidate teorie scientifiche […] i siti archeologici non solo sotto forma di reperti paleontologici, ma anche di manufatti, producono evidenze per cui le origini dell’uomo moderno non risalirebbero a 100.000 anni fa, ma a ben tre milioni di anni fa […]. Ciò che emerge è che con ogni probabilità non è esistita un’evoluzione del genere umano dall’Australopiteco all’Homo Sapiens, ma che al contrario uomini e ominidi hanno da sempre coesistito sulla Terra. (A. Michael Cremo, L. Richard Thompson, The Hidden History of the Human Race, 1996)
Cosa resta del darwinismo
La vita unicellulare è comparsa quattro miliardi di anni fa, appena dopo la formazione della terra, e c’è da presumere che con essa l’evoluzione verso la complessità abbia fatto il novanta per cento della sua strada. Gli organismi pluricellulari sono emersi in breve tempo, mezzo miliardo di anni fa, senza forme intermedie e senza forme premonitrici. I mammiferi moderni sono anch’essi apparsi, ben distinti nei loro «ordini», praticamente tutti insieme, all’inizio del Cenozoico. Quindi il cambiamento continuo, il passaggio lento e graduale e persino il miglioramento e la complessificazione sono tutt’altro che documentati. (G. Sermonti, ibidem, pag. 13)
Osservate in natura e nei reperti della paleontologia, le specie viventi risultano sostanzialmente stabili nel tempo, capaci di sfidare nella loro costanza i milioni di anni e in qualche caso le centinaia di milioni di anni (Ibidem, pag. 44).
La Selezione Naturale ha una funzione equilibratrice, stabilizzante, fondamentale nel mantenimento della specie, ma non è essa a determinare la speciazione. Essa interviene nel restaurare, nel riparare, nel declinare, nell’adattare l’opera dell’artista. Essa coniuga l’ambiente attraverso «meccanismi» genetici e, vedremo in seguito, epigenetici. Ma non è l’artista o il Grande Artista. (Ibidem)
Dal bruco alla crisalide
Ancora G. Sermonti (ibidem, pag. 98): Se non sono le mutazioni, che cosa produce allora le grandi differenze che distinguono tra loro le specie? Per quanto i fossili ci possono dire, specie o gruppi affini non discendono l’uno dall’altro, ma compaiono insieme, attraverso una misteriosa esplosione o irraggiamento, a partire da qualche forma che ha mantenuto un’ancestrale plasticità o ad essa è regredita. Queste specie sorelle o questi gruppi affini contengono un DNA sostanzialmente uguale, che varia, se mai, dopo che le specie si sono separate. A simbolo della diversità emergente dalla identità genetica sono il bruco e la farfalla […].
Raggiunto lo stadio di pupa, o crisalide, il bruco comincia a svuotarsi, i suoi organi si dissolvono, il suo involucro cede. Rimangono vitali solo alcuni gruppi di cellule, i cosiddetti dischi immaginali. Da questi dischi si sviluppano tutte le strutture dell’adulto: antenne, stiletti, proboscidi, occhi, zampette articolate, ali e quella leggerezza volante che fece chiamare la farfalla psiche. Bruco e farfalla sono forme diversissime, non l’una derivata dall’altro, ma ambedue nate da cellule embrionali totipotenti, alcune delle quali il bruco conserva nel suo corpo perché lo distruggano e ne ricostruiscano un altro.
I geni dormienti si risvegliano a Parigi
Un piccolo anfibio messicano, l’axotol, dal corpo bianco con vistose branchie rosse ai lati del capo, portato all’inizio dell’ottocento nel laghetto del Jardin des Plantes di Parigi, si convertì in una salamandra nera e gialla senza branchie. L’axotol era la larva della salamandra, trattenuta in Messico allo stadio larvale, ma capace di riprodursi come larva, e questo è importante, perché ne fa una specie a sé. L’acqua di Parigi, più ricca di iodio, la converte in salamandra, che è un’altra specie. Axotol e salamandra hanno il medesimo DNA, ma evidentemente nella salamandra entrano in funzione nuovi geni, già presenti nell’axotol, dove si conservano dormienti, da chissà quante migliaia di generazioni (G. Sermonti, ibidem, pag. 101-102).
La cellula ha una sua conoscenza innata
Gli organuli cellulari esterni al nucleo possono supplire ad una informazione inadeguata di DNA nucleare, ricorrendo ad una propria memoria. Infatti si è osservato nel trypanosoma brucei che un enzima variamente rimaneggiato per deficit del DNA nucleare viene riparato in ambito citoplasmatico; sembrerebbe pertanto evidente che la cellula, al di fuori del nucleo, che è la centrale dell’informazione genica, già conosca i messaggi che le vengono via via inviati. Esiste una sorta di meccanismo di controllo reciprocante dell’informazione? Esiste una duplice informazione diversamente programmata? Esiste una organizzazione di economia aziendale per cui è, in condizioni di normalità, prevalente l’informazione genica?
PACCHETTI DI GENI PER L’EVOLUZIONE
Nel moscerino dell’aceto, la drosofila, furono scoperti una serie allineata di dieci geni: il primo gene è preposto al segmento anteriore, quello craniale, e gli altri, via via, agli ulteriori segmenti somatici in senso cranio-caudale. Il medesimo pacchetto di geni fu successivamente scoperto nelle specie più complesse: nei vertebrati il pacchetto è replicato quattro, cinque volte. Nelle diverse specie ogni gene del pacchetto presiede allo sviluppo di una determinata regione dell’embrione, dalla testa alla coda, inducendo diverse espressioni. Il gene che presiede agli spiracoli cefalici della drosofila si esprime nella testa del topo. Così un medesimo gene, che è lo stesso indipendentemente dalla specie, controlla la porzione caudale, sia essa la coda d’un topo, o l’estremità d’una cavalletta o di un anfibio. Il gene che posiziona l’occhio del gatto, trasferito nell’uovo di un moscerino cieco ripara il difetto. Si pensa che questo pacchetto di geni dell’organizzazione generale sia antichissimo e universale. Tra il DNA e l’essenza dell’essere c’è l’epigenetica che veicola le informazioni dell’ambiente. I pacchetti di geni sono preesistenti. (Cfr. G. Sermonti, ibidem, pag. 63-64 e 71)
Geni regolatori di specie
È possibile che esistano pacchetti di geni della speciazione? Che esistano dormienti sin dai primordi e si sveglino, via via, secondo i ritmi d’un programma primigenio? Una sorta di banca di geni, a disposizione dell’evoluzione. Strutture interne e vincoli interni degli organismi interagiscono con una sorta di pannello di controllo, cui è possibile attingere e prelevare geni per la speciazione o per forme di evoluzione minore. Le strutture interne elaborano una sorta di istruttoria necessaria alla richiesta del prelievo. La struttura di controllo esamina la richiesta ed elargisce in tutto, in parte, o per niente, la somministrazione di geni. Così come l’utente d’una banca per la richiesta d’un mutuo.
L’evoluzionismo creazionistico ha per fine l’uomo
Così Giuseppe Montalenti (nell’introduzione, pag. 10, a L’origine dell’uomo e la selezione sessuale di Darwin, Newton Compton Editori, 2009): Mossi probabilmente da un anti-evoluzionismo d’ispirazione emotiva, o religiosa o filosofica, confortati in ciò dalle difficoltà incontrate nel dare una spiegazione soddisfacente delle cause del cosiddetto meccanismo dell’evoluzione, alcuni naturalisti, di fronte all’evidenza inconfutabile dei fenomeni evolutivi, pensarono bene di trovare un’altra via d’uscita: ammettere, per così dire, un evoluzionismo creazionistico. L’evoluzione consisterebbe cioè nello svolgimento di un disegno prestabilito. Nacquero così varie teorie dell’evoluzione per cause interne, cui furono dati nomi diversi (ologenesi, nomogenesi, evoluzione telefinalistica, ecc.). Alcune di queste, come il telefinalismo di Lecomte de Noüy, ammettono che il processo evolutivo abbia un fine: la formazione dell’uomo.
Un programma informatico universale
Un Essere crea con il verbo servendosi verosimilmente d’un sistema informatico evolutissimo. Non necessariamente è egli Essere Supremo. Egli crea con il verbo, così come anche secondo il redattore di Genesi e come anche secondo la tradizione gnostica e come anche secondo quasi tutte le antiche tradizioni. Per gli gnostici, più evidentemente, alla creazione degli eoni segue un processo di emanazione. Qui ogni eone, creato con la parola, viene in essere assieme a una miriade di angeli, come scintille che si liberano da tizzi di fuoco nel camino, quando si vuole ravvivare una fiamma che langue. E gli angeli nel loro significato etimologico, poi diversamente tradotto, indicano messaggi. Miriadi di messaggi in un software, che di volta in volta si esprimono nel creato, ora in un big-bang che dà luogo all’universo e ai firmamenti e al nucleo dell’idrogeno ed alle nuvole di elettroni, ora in geni informatici di batterio, ove già c’è, dormiente, la programmazione dell’uomo fatto ad immagine e somiglianza. Ove forse è tutt’ora dormiente l’Adamas archetipo degli gnostici. Dovunque nasca la vita nell’universo, o negli universi, da quel primo batterio la vita evolve per raggiungere le forme dell’uomo e per permettere all’uomo di pensarsi. E di proiettarsi oltre. Nell’Adamas androgino archetipo. E qui si ferma chi non ha il dono della fede. E qui resta come cursore sul monitor d’un sistema informatico.
E dopo l’uomo?
Gli studi del genoma hanno evidenziato che Neanderthal e Sapiens erano identici al 99,84%; nel Neanderthal più robusto del Sapiens e con un cervello non più piccolo, e a volte anche più grande, erano meno sviluppati i lobi frontali del cervello, mentre era più grande la regione occipitale, dove risiedono funzioni legate alla vista (cfr. L. Cavalli Sforza, T. Pievani, Homo Sapiens, pag. 39). Si è indotti a credere che le stimolazioni funzionali continueranno a risolversi in forme; pertanto possiamo ritenere che si ridurranno le masse muscolari, che possano accrescersi le dimensioni del capo, che canini, incisivi e molari potrebbero non essere più indispensabili… Si aprono scenari nuovi, difficilmente prevedibili; proiezioni che ora sembrano fantascientifiche lasciano intravedere una nuova umanità con commistioni di tipo bionico. Tornano in mente certe espressioni pervenuteci dal passato e restate a lungo misteriose: gli angeli della distruzione, diversamente da tutti gli altri, sono dotati di giunture (PR 22, 114a; cfr. L. Ginzberg, Le leggende degli ebrei, I, nota 9, pag. 183); invece gli altri angeli non hanno giunture, sono un corpo unico (cfr. L. Ginzberg, II, nota 258, pag. 332).
L’uomo è carne
I nostri fisiologi ritengono che la durata della vita giungerà ad attestarsi intorno ai 120 anni; ed è sorprendente, a pensarci, che questo fu un limite imposto dal Dio dopo il Diluvio, allorché permise agli uomini di cibarsi di carne, ma nel contempo ridusse proprio a 120 anni la durata di vita di quella umanità: Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per moglie quante ne vollero; allora il Signore disse: Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni (cfr. Gn 6, 1-3). Tra i figli di Dio e le figlie degli uomini non c’era barriera genetica e l’ibridazione fu possibile.
I Figli di Dio nella letteratura ebraica venivano di volta in volta chiamati Vigilanti dei cieli o Nefilim o Angeli caduti o Guardiani o Neteru: il mito vuole che discesero sulla Terra, perché inviati in missione da Dio, ma furono sedotti dalle donne; secondo un’altra versione si erano invaghiti delle donne e perciò, ribellatisi, avevano lasciato i cieli. Con la sensibilità propria dei semiti, rigidamente cultori della società patriarcale, le donne erano state escluse dalla nuova umanità celeste dei Figli di Dio.
Così parlò Dio, rivolto ai Vigilanti (Libro dei Vigilanti, XV, 3-7): Perché avete lasciato il cielo eccelso e santo in eterno e vi siete coricati con le figlie degli uomini ed avete commesso impurità, vi siete prese mogli, avete agito come i figli della terra ed avete generato giganti? E voi, per davvero esseri spirituali, santi e viventi la vita eterna, avete commesso impurità sulle donne, le avete fatte generare con il sangue della carne e le avete amate con il sangue degli uomini; ed avete fatto come fanno loro, che sono sangue e carne, che sono mortali e distruttibili. E perciò io detti loro le donne: affinché seminino su di esse e da esse, come si fa sulla terra, nascano figli. Ma voi, prima, eravate spirituali, viventi la vita eterna che non muore mai, e perciò io non avevo fatto, anche per voi, le donne: perché gli esseri spirituali, in verità, hanno la loro sede nel cielo […].
Gli esseri di spirito
Ho parlato con Benny degli esseri di spirito, definendoli immateriali. Benny mi contesta il termine immateriale da me usato: nel gioco della logica, così egli dice, non è ammessa la non materia; quegli esseri, piuttosto, dovrebbero essere considerati come costituiti di materia sottile, rievocando così, oltre la logica aristotelica, anche la logica delle filosofie orientali. Tuttavia Giovanni parlando di Gesù (Atti di Giovanni, 93, 1) si esprime così: Altre volte toccandolo m’imbattei con una sostanza immateriale e incorporea, quasi che fosse assolutamente inesistente. Gli gnostici valentiniani chiamavano materia incorporea quella sostanza immateriale (in proposito cfr. L. Moraldi, Testi gnostici, UTET, 2008, pag. 43).

Un giro in giostra
Tanti anni fa mia figlia Minny, scendendo soddisfatta dalla pedana di una giostra, lei già abbastanza grande, da non piangere, invece, come fanno quasi tutti i più piccoli, mi chiese: Papà, ma il mondo è come una giostra che gira?. Erano passati tanti anni e quella domanda improvvisamente mi tornò in mente, allorché, leggendo il secondo libro della Genesi, m’interrogavo su cosa avesse fatto Dio il settimo giorno, allorché Portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro.
Una sorta di folgorazione mi fece capire cosa aveva fatto Dio il settimo giorno. Trascorsi ancora altri anni, ero impegnato una domenica mattina in lavori di giardinaggio, quando due testimoni di Geova si avvicinarono al cancello, chiedendo di parlarmi. Per cortesia, mi avvicinai e li salutai. Non avevo con me le chiavi del cancello, così restammo a parlare, io al di qua e loro al di là. Dei due parlava soltanto il meno giovane e l’altro ascoltava. Erano, mi dissero, presentandosi, un papà, funzionario di banca e il figlio. Restai alquanto sorpreso. Ad un certo punto, un po’ maliziosamente, quasi per rivalsa, perché avevano interrotto il mio lavoro, chiesi al papà, a bruciapelo, cosa, secondo lui, avesse fatto Dio il settimo giorno, prima di cessare da ogni lavoro. Mi guardò, a sua volta sorpreso, e immediatamente: Niente, il settimo giorno, Dio si riposò. Ha con sé la Bibbia, vero?, gli chiesi. E lui subito la estrasse dalla borsa, aprì e lesse.
E poi, subito: Oh Dio! Mise in moto la giostra!.

Domenico Casale, cardiochirurgo di professione e contadino per passione, esperto di mitologia e testi sacri multiculturali, scrittore.