I napoletani sono convinti che prima sia nato il caffè e poi loro. È un rapporto viscerale, tanto da affermare di essere stati allattati con il caffè (più esattamente con un cappuccino), intorno al quale nasce un mondo fatto di piccoli piaceri. Entrando al bar, nell’ordinare ‘nu bello cafè, si vive sempre una piacevole sorpresa, perché nessun caffè è mai uguale all’altro. A me però, che sia bello, non me ne importa niente, m’interessa che sia buono. Andare al bar è un rito da condividere con gli amici: si commentano i fatti del giorno, si fanno quattro risate (fuori si torna subito seri!), si fanno ‘nciuci, insomma quelle che sono chiamate fesserie ‘e cafè, con quella che in Spagna si chiama ronda, cioè ci si alterna nell’offrire, perché offrire un caffè comporta un piacere unico e tutto speciale.
Il caffè deve rispettare le regole delle tre C, Comme Cazzo Coce, ma a queste bisogna aggiungerne altre: oltre a essere Cocente, deve essere Curto (stretto), Carreco e Comodo, quindi da sorbire in poltrona.
Nonostante la devozione, il caffè a Napoli è arrivato tardi rispetto ad altre città europee.

La stimolante bevanda, in arabo qahwa e in turco kahve, più vicina al nostro cafè che all’inglese coffee, secondo la leggenda è nato in Etiopia, quando un pastore vide le sue pecore agitarsi dopo aver mangiato le bacche della pianta. Dall’Etiopia allo Yemen il passo fu breve, e dal porto di Mokha il caffè partì per conquistare i mercati arabi; dicono che furono i veneziani, che avevano rapporti commerciali con i turchi, ad aprire le prime botteghe di caffè in Europa, ma questo non dovette piacere a Francesco Redi, che nel suo Bacco in Toscana dichiara: beverei prima il veleno che un bicchier che fosse pieno dell’amaro reo caffè. Eppure il caffè era stato sdoganato persino da papa Clemente VIII. Quando infatti alcuni sacerdoti la definirono bevanda diabolica in quanto di matrice musulmana, il papa chiese di assaggiarla, la apprezzò, e commentò che se il caffè era una bevanda del Diavolo allora bisognava benedirla per sottrarla alla sua influenza, e sulla tazza fece il segno della Croce.
I Coffè house nacquero in Inghilterra, poi in Germania (Bach ha scritto la Cantata del caffè, protagonista una figlia che non vuole assolutamente rinunciare al caffè), in Francia, dove ancor oggi a Parigi si può mangiare da Procope, un siciliano che a fine ’600 aprì un caffè dove, tra gli altri, ebbe avventori Voltaire (che beveva 40 caffè al giorno), gli Illuministi Danton, Marat, Robespierre, e dove Napoleone lasciò in pegno il suo cappello (esposto in una vetrina all’ingresso), non avendo soldi per pagare. Il bellissimo locale, dove si respira storia e dove si conservano importanti cimeli della Rivoluzione, oggi è un discreto ristorante. In Olanda il caffè si lega invece ad Antoni Van Leeuwenhoek, che pur non essendo uno scienziato, bensì un osservatore scrupoloso, con i suoi microscopi scoprì per primo i microbi. Si racconta che non avesse molta considerazione per i medici e si curava da sé, ma essendo un gran mangione il sangue gli si era inspessito, e per scioglierlo beveva caffè bollente in gran quantità. Fu proprio dopo aver sorbito una tazza di caffè bollente che, all’osservazione microscopica della sua saliva, s’accorse che tutti i microbi presenti erano morti, e dopo ripetute esperienze scoprì quindi che i microbi muoiono con l’acqua bollente. Il mercato mondiale del caffè era in mano agli olandesi, che lo portarono in Surinam, la Guayana olandese, e da qui nel vicino Brasile (un pittore di Maiori, Antonio Ferrigno, emigrato a fine ’800, si affermò in Brasile come il Pittore del Caffè, immortalando scene legate alle piantagioni). In Italia il primo Caffè è stato il Florian di Venezia, dove si inciuciava tanto che Goldoni ha pensato di scrivere la Bottega del caffè.
Tre anni fa lessi la notizia che il caffè era già conosciuto dalla Scuola Medica Salernitana, ma poiché mancavano dettagli, cercai la fonte alla Biblioteca Nazionale: era il Flos Medicinae Schola Salerni, una versione quattrocentesca completa di tutte le regole che nei secoli aveva sviluppato la Scuola, e fra queste si raccomandava il caffè. Ma com’era possibile che la Scuola conoscesse da secoli ciò che in Europa era sconosciuto? È probabile che la conoscenza fosse dovuta agli scambi commerciali che Salerno, Amalfi e la potentissima badia di Cava De’ Tirreni avevano con i paesi arabi, verso i quali esportavano manufatti ricevendo spezie, aromi e altre essenze, vendute in occasione della famosa fiera medievale che si svolgeva a settembre a Salerno, di cui parla anche Boccaccio. Le regole della Scuola prevedono l’ordine dei cibi da servire a pranzo: Praeludant offae, precludat omnia coffe (si cominci con le focacce – di farina, con miele e fichi, da mangiare come stuzzichino – e si concluda con il caffè). Il caffè viene considerato utile perché impedisce il sonno, giova allo stomaco e allevia il mal di testa, a condizione che sia selezionato, sano e moderatamente tostato: hoc cape selectum, validum,mediocriter ustum.
La bevanda che nel ’600 aveva conquistato l’Europa (si narra che un soldato, dopo l’assedio di Vienna, fece una fortuna aprendo un Caffè grazie ai numerosi sacchi abbandonati nelle tende dagli ottomani in fuga, chicchi che gli altri soldati non avevano mai visto ma lui sì, poiché era stato in Turchia), a Napoli arrivò solamente a fine ‘700. Essendo nero come il mantello della morte e amaro come i guai, poteva celare qualsiasi intruglio, per cui un popolo superstizioso come quello partenopeo diffidava di questa bevanda oscura. Tuttavia, grazie al gastronomo Vincenzo Corrado, autore del libretto La manovra del cioccolato e del caffè, dedicato a Nicola Valletta, che dette il suo contributo all’opera inserendovi una canzoncina in difesa del caffè, la bevanda ottenne finalmente il meritato successo. Valletta era l’autore della Cicalata sul fascino volgarmente detta iettatura, equivalente della Bibbia per coloro che credono nel malocchio. Per questo i napoletani pensarono che se il più grande esperto in materia di iettatura si era espresso a favore del caffè, significava che berlo faceva bene!

Del resto, presso la Corte borbonica, a seguito del matrimonio di Ferdinando IV con Maria Carolina d’Austria, il caffè era già apprezzato. La sposa austriaca aveva portato a Napoli alcuni prodotti consumati nei salotti viennesi: caffè e croissant. Quest’ultimo, dolce tipico della colazione mattutina, fu inventato dai fornai viennesi, che dopo la sconfitta ottomana a Vienna crearono una pasta a forma di mezzaluna crescente, simbolo dei turchi vinti, e lo chiamarono Croissant, che in francese vuol dire appunto crescente.
Il successo fu tale che, oltre a tantissime caffetterie, nacque la figura del caffettiere ambulante, che girava con due contenitori, uno per il caffè l’altro per il latte, con un cesto pieno di tazze e zucchero e un recipiente di banda stagnata provvisto di acini di fuoco (carboni ardenti) sui quali si mantenevano calde le caffettiere. Al mattino svegliava tutti gridando:‘O caffettiere! Jammo che è juorno! E chiudeva la frase ogni volta con un nome diverso, onorando il santo del giorno.
‘O Ccafè con due C nell’800 divenne luogo di ritrovo per poeti, artisti, giornalisti; vi si parlava di Italia unita e di libertà, covi di pensiero pericolosi per un Regno. Il popolino non frequentava questi locali eleganti, ma ladri e malandrini avevano i loro punti di ritrovo, così mentre i signori s’incontravano al Caffè Diodato a piazza Dante, ricordato da Di Giacomo in Lassammo fà a Dio, i truffatori si radunavano al Caffè d’o Cecato, necessariamente aperto giorno e notte.
Ma che caffè bevevano questi signori? Certo non l’Espresso! Quello del ‘700 era infatti un caffè alla turca: in un bricco sulle braci si cuoceva la polvere dei chicchi macinati, stemperandola in acqua. A Napoli ci fu persino un’evoluzione: il filtraggio dell’acqua bollente fatta colare dall’alto attraverso la polvere di caffè. Questo era il principio della cuccumella, inventato dal francese Morize. Era nata così la Napoletana, con il coppetiello sul beccuccio per evitare la dispersione degli aromi, ed Eduardo in Questi fantasmi ne ha fatto un monumento.
Per avere le prime macchine del caffè bisognerà attendere l’Expo di Torino del 1884, quando Angelo Moriondo espose la sua, a campana, alta più di un metro, che fu pure brevettata. Moriondo però si limitò a usarla solo in Caffè, ristoranti e alberghi di cui era proprietario. Fu nel 1902 che il milanese Bezzerra perfezionò la macchina, fino a che, negli anni Trenta, arrivò la Moka di Bialetti.
Tornando a Napoli, il più famoso dei Caffè ottocenteschi fu il Caffè delle Sette Porte, a piazza Plebiscito, diventato poi Gambrinus nel 1890.
Il caffè si beveva con la panna, come all’estero, o con lo schizzo, cioè corretto con l’anice, secondo il gusto locale.
È questo il tempo del Cafè Chantant, locale dov’era possibile sorbire caffè e liquori e mangiare qualcosa, mentre sul piccolo palco, fra chiacchiere e rumori di stoviglie, si esibivano gli artisti.
Poi si aprì il Salone Margherita, e fu un’altra storia: aperto nel 1891 sotto la Galleria Umberto,fu il primo Cafè Chantant d’Italia. Vi si esibivano fantasisti, ventriloqui, macchiettisti, vedette internazionali, a fine spettacolo la Sciantosa, e nobili e ufficiali facevano a gara per godere delle sue grazie. Al piano superiore, in Galleria, si trovava il Caffè Starace,che forniva le consumazioni al Salone Margherita, e che più tardi, prendendo il cognome dei nuovi proprietari (spunto anche per una sboccata macchietta), diventò Caffè Calzona. Nello stesso periodo, al Gambrinus (dove D’Annunzio improvvisa su un tovagliolo le parole della canzone ‘A vucchella) e negli altri Caffè Chantant locali, nasce la grande canzone napoletana. I Caffè sono tutti a via Toledo e dintorni, ma al Vomero, verso il 1890, si apre Don Ciccio, locale per gli operai che stanno costruendo i palazzi di piazza Vanvitelli. Seguiranno, dopo l’apertura delle funicolari, il Caffè Resi a via Morghen (con addirittura la pista di pattinaggio) e Daniele a via Scarlatti (all’angolo con via Alvino), con bar, pasticceria, gelateria e ricevitoria del Totocalcio, che per i vomeresi è stato un importante punto d’incontro. Ricordo che questo bar si trovava poco lontano dallo stadio del Vomero, oggi Collana, dove allora giocava il Napoli, e spesso gli Azzurri andavano a prendersi lì una bevanda. I tifosi li trattavano con rispetto, li accompagnavano a piedi agli allenamenti, e una volta seguii Vinicio che abitava con la mamma dove oggi c’è il negozio di Galiano.
Il caffè per me è patrimonio materiale dell’Umanità. In tutto il mondo si beve, ed è presente in ogni manifestazione artistica: in pittura Van Gogh (splendido il Caffè di notte di Arles); la pittrice americana Karen Eland (come tecnica usa il caffè), che dissacra la Gioconda rappresentandola con una tazza di caffè in mano (svelato il mistero del sorriso: avrà gradito!) e altri quadri famosi, come la Ragazza con l’orecchino di perla o il Michelangelo della Sistina (raffigurato con Adamo che versa il caffè a Dio), gli Impressionisti, i Futuristi (che facevano il pranzo al contrario, cominciando dal caffè). E nel cinema, in quanti film vediamo bere quei tazzoni di caffè americano che ti fanno passare la voglia? Meno male che in Italia si gusta a piccoli sorsi per sentirne più a lungo il sapore. Per fortuna ci sono Totò e Peppino, che nella Banda degli Onesti, nella scena del bar, ti fanno venir voglia di prendere un buon caffè, non troppo zuccherato come quello però. E non dimentichiamo il Cafè Express di Nanni Loy, con Nino Manfredi, triste storia di un abusivo venditore di caffè sulla linea ferroviaria notturna Vallo della Lucania-Napoli. Protagonista anche della canzone napoletana, il caffè si esalta grazie a Briggeta, tazz e ‘cafè parite, sotto tenite ‘o zzucchero e ‘ncoppa amara site o ne ‘O ccafè di Modugno, con ‘A tazzulella ‘e cafè di Pino Daniele o il Don Rafè di De Andrè.
Diceva Taillerand: Nero come il diavolo, caldo come l’inferno, puro come un angelo, dolce come l’amore, per un caffè francese dell’800… e se avesse gustato un Espresso, con la schiumetta sopra, che cosa avrebbe detto? Il caffè dev’essere Espresso, non sottinteso. Chiaro?!
Il caffè è poesia, musica, profumo, piacere. Si può prendere al mattino, di corsa, assoluto.
Anche se… accompagnato da cornetto o sfogliatella è tutta un’altra cosa.
Io opto per la seconda, nata fra le mura del convento della Croce di Lucca, uno di quei monasteri in cui le monache inventavano i dolci. Ognuno aveva una specialità: Santa Chiara era famose per le zeppole, la Maddalena per la pasta reale, Santa Patrizia per le fette di cotogna sciroppata. Si facevano persino gare fra i conventi, dacché quelle prelibatezze attiravano generose offerte da parte dei signori, rimpinguando le casse dei monasteri. Le ricette erano segretissime, guai a farle uscire dal convento!
Nel 1624 ci fu però un incidente che la rammaricata Priora della Croce di Lucca fu tenuta a segnalare al Principe di Cellamare, protettore del convento e notevolissimo benefattore di alcuni lavori di restauro: tre novizie del monastero avevano infatti rivelato il segreto della ricetta di un fagottino ripieno di ricotta e pezzetti di cedro. Il segreto del triangolo ripieno arrivò fino al lontano monastero di clausura di Santa Rosa a Conca dei Marini, vicino Amalfi, che arricchì la ricetta aggiungendo anche prodotti tipici della Costiera amalfitana (ricottella di Agerola, uova e semola di Praiano) e guarnì lo scrigno con crema pasticciera coperta di amarene e bagna al limoncello. Nacque così la sfogliatella Santa Rosa, dolce barocco che riposerà un centinaio di anni, prima di arrivare non si sa come, agli albori dell’800, nelle sapienti mani di Pasquale Pintauro, con negozio a via Toledo. Il popolo napoletano aveva sentito parlare delle leccornie preparate per i signori dalle suore dei conventi, ma ne era stato sempre escluso, fino a quando Pintauro non iniziò la produzione della Santa Rosa, o sfogliatella Riccia. Un trionfo che ha fatto storia, tanto da usarsi l’espressione Tene ‘a folla ’e Pintauro per indicare i luoghi particolarmente affollati. Poco dopo, con grandissimo successo, lo stesso Pintauro presenterà una nuova sfogliatella: la Frolla.
La fortuna di Pintauro mutò a metà ‘800, quando arrivò Caflisch con la sua pasticceria svizzera, seguito da proposte più raffinate, che incontravano il favore di una Napoli più aristocratica. La sfogliatella viene sostituita dalla patisserie, e da via Toledo va a rifugiarsi nel ventre della città o alla ferrovia. A inizio ‘900 arrivano artigiani dolciari da Calabria (Scaturchio) e Sicilia (Bellavia), e rifioriscono autoctoni come Attanasio alla ferrovia. Anche la tradizione musicale fa propria la sfogliatella, in brani come Fravula Frà o in autori quali Pisano e Cioffi, che dicono …tu sì ‘na sfogliatella di Caflish. Molti ne hanno scritto, e c’è persino un indovinello erotico a tema: Uh, che gusto, uh che gusto,/quanno madama se sponta ‘o busto/quanno po’ si’ a metà/uh che gusto che te dà!” La soluzione ovviamente è la sfogliatella, ma quella riccia, la Santa Rosa, che quando frantumi la sfoglia rugosa ti riempie la bocca di ricotta e ciliegia, e senti un vero godimento fisico. Ci stai ancora pensando? Lascia stare i pensieri, e corri subito in pasticceria!

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia