…Sopra al filo di una ragnatela e ritenendo il gioco interessante andò a chiamare un altro elefante. Due elefanti si dondolavano sopra al filo di una ragnatela e ritenendo il gioco interessante andarono a chiamare un altro elefante…
E così di seguito: è una filastrocca, ripetuta dieci volte, tesa ad insegnare ai bambini i primi numeri.
L’elefante, pur nella sua maestosità, è considerato docile, buono, gentile, tanto è vero che la sua popolarità è stata rappresentata in Francia in letteratura da Babar, da Disney nel cartone animato Dumbo l’elefante volante o al cinema da una famosa musichetta Baby elephant walk, che accompagna le immagini della passeggiata degli elefantini, presente nel film Hatari.
Ebbene questo animale così simpatico è stata la prima divisione corazzata della storia, dirompente come i carri armati sulla cui schiena c’erano delle torrette dalle quali i soldati colpivano i nemici.
Alessandro Magno, che pur li aveva sconfitti, si scoraggiò ad invadere l’India quando seppe che contro di lui sarebbe sceso in campo un esercito formato da diecimila elefanti.
In Occidente i Romani li videro per la prima volta ad Eraclea in Lucania quando Pirro, re dell’Epiro (l’odierna Albania), glieli scagliò contro devastando le file dell’esercito romano: i Romani che non li conoscevano li chiamarono buoi lucani.
Cinque anni dopo Roma dimostrò di aver imparato la lezione e nella battaglia di Maleventum (che poi si chiamò Benevento a seguito della vittoria romana): attaccarono gli elefanti con giavellotti incendiari e li spaventarono con il frastuono delle trombe e con il fragore degli scudi percossi; gli animali terrorizzati si girarono su loro stessi e fuggirono impazziti scompigliando le schiere del proprio esercito.

Poi venne Annibale, il cui piano di utilizzo degli elefanti contro Roma fallì: tentò di passare le Alpi con 37 elefanti, che appartenevano a una razza nana, poi estinta, delle montagne del Nord-Africa che non superavano i 2,50 metri d’altezza, ma arrivati nella pianura padana morirono tutti.
Possedere un elefante era uno status symbol per i Sovrani: lo ebbero nel medioevo Carlo Magno, i Re di Francia, Federico II di Svevia, e grazie agli scambi commerciali con l’Oriente fu più facile, dopo secoli di oblio, vedere questi tozzi proboscidati che sorprenderanno milioni di persone che non li avevano mai visti in Europa.
Raccontiamo allora la curiosa storia di due di questi elefanti, uno fu donato a Papa Leone X e l’altro se lo procurò Carlo III di Borbone di Napoli.
Un elefante bianco, nel 1514, chiamato Annone in ricordo di un generale di Annibale, fu regalato dal Re del Portogallo, Manuele I, a Papa Leone X e a Roma fu acclamato da una folla in delirio e che pur dopo morto venne rappresentato da opere di grandi artisti.
Il Regno portoghese era piccolo ma grazie alla intraprendenza dei suoi navigatori che avevano aperto nuove rotte commerciali per l’Oriente e scoperto nuove Terre era diventato ricchissimo, almeno in apparenza: Lisbona sembrava una capitale di un Paese da Mille e una notte per il clima di ostentazione delle sue merci per l’ebbrezza collettiva che travolgeva avventurieri e speculatori. In realtà per i costi delle numerose guerre e per valorizzare ciò che era nascosto nelle terre conquistate come il Brasile o lungo la costa indiana occorrevano molti soldi e le Casse dello Stato erano vuote. Allora bisognava trovare un Amico che lo sostenesse, e chi più della Chiesa Cattolica? Il Portogallo combatteva gli infedeli e quindi doveva essere aiutato: le Finanze del Vaticano non erano molto floride però si poteva cedere al Regno parte delle rendite delle Chiese portoghesi o fare da garante presso le grandi Banche fiorentine, bisognava quindi mandare a Roma una grande ambasceria, ricca, importante e composta da illustri personaggi, degna dello splendore della Corte papale e si decise di mettere a capo della missione il grande navigatore Tristan da Cunha.
Questo personaggio ha scoperto le isole dell’Arcipelago meridionale dell’Africa, fra cui la più importante porta il suo nome (per curiosità sull’isola Tristan da Cunha vivono famiglie con otto cognomi diversi, di cui due sono italiani perché marinai di Camogli vi fecero naufragio a fine ‘800).
L’ambasceria arrivò a Roma portando con sé un elefantino bianco alto come un uomo, in dono al Papa, un animale che da secoli non si vedeva in Occidente, che lungo il percorso dal porto della Maremma dove era sbarcato fino a Roma, mandò in delirio migliaia di persone che venivano dai paesi più lontani. Giunto a Roma, tutto bardato di tessuti preziosi e gemme. fu ricevuto da cardinali e principi per poi poter essere ammesso dinanzi al Papa, al quale accarezzò con la proboscide le pantofole e poi mettendo il suo nasone in due bacili di acqua la spruzzò sui presenti generando l’ilarità generale.
Leone X si divertì moltissimo e fu così contento che accontentò il Re del Portogallo. Poiché in quei giorni si rappresentavano a teatro alcune commedie spagnole volle che il teatro fosse gratuitamente aperto ai Portoghesi per tutto il tempo in cui rimanevano a Roma. Molti romani per vedere gratis anche essi gli spettacoli si spacciarono per Portoghesi per cui da questo episodio è nato il termine portoghese per indicare chi non paga.
Dopo la sua giornata trionfale Annone fu confinato nei giardini vaticani, ma dopo tre anni non essendosi adattato al clima romano morì. La sua memoria gli sopravvisse grazie agli artisti come il Bernini che ne fece un disegno dal quale lo scultore Ettore Ferrara nel ‘600 tradusse in scultura un elefantino marmoreo che regge un obelisco dinanzi alla Chiesa di Santa Maria sopra Minerva: i Romani lo chiamano il pulcino della Minerva, ma è un errore in quanto il nome attribuitogli in origine era il porcino della Minerva, poiché l’elefante somigliava ad un maialino.

Anche Carlo III di Borbone di Napoli voleva possedere un elefante per il suo zoo a Portici ricco di animali esotici, ma di questa storia esistono due versioni, una vera e l’altra ufficiale: la prima racconta delle pressioni fatte dal Re al suo incaricato di affari, Conte Finocchietti, in Turchia affinché gli procurasse un elefante per il suo giardino, la seconda che l’elefante era stato un dono del Gran Sultano a Carlo III.
Il conte sapeva che in Turchia non c’erano elefanti, per cui nell’impossibilità di procurarselo disse che l’acquisto sarebbe costato una cifra iperbolica, ma il Re insisteva per cui il Conte si rivolse al suo amico Ambasciatore di Persia in Turchia, chiedendo il suo aiuto. Questi inviò proprie persone in India che finalmente portarono l’elefante, che costò una cifra enorme.
Per sfuggire alle critiche che potevano essergli rivolte per una spesa che era costata tantissimo alle casse dello Stato si disse in giro che l’elefante era stato un omaggio del Sultano in cambio di marmi trovati ad Ercolano e questa è la versione ufficiale.
Quando finalmente l’elefante arrivò a Napoli fra lo stupore dei cittadini, fu messo nei giardini reali del Re a Portici in modo che tutti potessero ammirarlo ed addirittura alla sua persona fu messo un caporale che doveva accudirlo.

Il caporale si vestì con una bella divisa gallonata e si pavoneggiava dinanzi al pubblico, guadagnando anche qualcosa sotto mano per farlo accarezzare: si sentiva importante, anche perché l’elefante calcò le tavole del Teatro San Carlo nell’opera Alessandro nelle Indie. Il mantenimento dell’animale costava tantissimo fra cibo per il pachiderma e gli stipendi ai custodi, ma pochissimi anni dopo l’elefante morì e il caporale tornò nei ranghi senza più il luccichio della divisa e l’importanza di cui si vantava, era destinato ad essere dimenticato ed allora il popolo per sottolineare il ritorno al modesto posto che gli competeva in origine coniò la frase Capora’ è muorto l’alifante, modo di dire che viene usato ancora oggi a Napoli per indicare la caduta di un personaggio che si credeva importante e che ora non conta più nulla.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo della A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia.