Un malinconico miraggio

“Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora…”
(da "La signorina Felicita, ovvero la Felicità" di Guido Gozzano)

Una delle prime voci poetiche del novecento italiano fu quella di Guido Gozzano, morto di tubercolosi a soli trent’anni.

Dalle sue poesie emana un profumo esile, ma inconfondibile.

I suoi versi nascono dalla tristezza di sentirsi spegnere nel cuore ogni capacità di commuoversi e ogni semplicità di affetti, dalla stanchezza che nasce dalla nostra sorte, confusa ed incerta, di uomini “moderni”.

Da questo stato d’animo il poeta è ricondotto alle “buone cose” del tempo passato, con una nostalgia fatta di aspetti malinconici, di vecchi arredi, di oggetti carichi di ricordi abbandonati nelle soffitte. E con essi le sensazioni che ricordano alla mente ed al cuore le cose perdute per sempre, l’odore dell’inchiostro di lettere iniziate e mai concluse, l’oscurità delle stanze buie piene di ricordi. E poi quegli argomenti così lontani dalla quotidianità dei nostri giorni convulsi e sterili, pieni d’affanno, di ritmi serrati e di obiettivi fittizi: il quieto acciottolio delle stoviglie, gli idilli di provincia, ragazze sentimentali e timide…

Ma è una nostalgia a cui Guido Gozzano non riesce ad abbandonarsi compiutamente, intrisa com’è di un amaro sorriso che tutto dissolve, il sorriso di chi descrive un mondo al quale non può più aderire, per sensibilità diversa, per cultura, per genere di vita.

Nasce dunque una lirica che mette in risalto, con anticipo grande sui tempi che verranno, un’area vasta di frana, di rottura, propria di una cultura incapace di trovare il proprio equilibrio. Una cultura che ironizza sulle “cose buone di pessimo gusto”, ma finisce poi con il rifugiarsi in esse, rinunciando, abdicando al futuro ed alla ricerca di una nuova via. E questo stato d’animo non fu proprio solo di Gozzano, ma di tanti altri letterati meno conosciuti che furono sinteticamente detti crepuscolari per quel loro indulgere su sentimenti sfumati ed incerti, per quell’aurea di compianto per l’estinguersi in loro di ogni forte capacità di commozione poetica.

 E voci simili non sono presenti soltanto nel nostro paese, ma anche all’estero, un po’ dappertutto in Europa.

La Signorina Felicita ovvero la felicità è, dunque, tra i componimenti del nostro Poeta, quello che meglio rispecchia i motivi della sua ispirazione, così come ho cercato di raccontarli.

L’autore, in villeggiatura in un paesello del Canavese, ha conosciuto una signorina del posto e si è abbandonato a vagheggiare un’esistenza tranquilla accanto a lei.

A lei che è l’esatta antitesi delle figure femminili così in voga nel costume e nella letteratura dell’epoca, così sofisticate, intellettuali, eleganti, dannunziane nel tratto e nel comportamento. Felicita abita in una villa seicentesca quasi abbandonata, con l’odore del passato nelle stanze e nei corridoi, con armadi immensi ed un solaio pieno di cose antiche di secoli.

In quell’ambiente il poeta, raffinato e decadente, avrebbe forse trovato quella pace e quella serenità cui anelava e che nessuna donna di città e nessun luogo avevano saputo dargli. E quando alla fine della villeggiatura egli lascia il paese, l’addio era stato romantico come in una lagrimosa ed ingenua storia raccontata.

Ma quando, tornato in città e alla sua vita di tutti i giorni, il poeta legge nel calendario il nome della santa del giorno, Felìcita, gli risale alla memoria il volto della donna conosciuta e ricorda quell’idillio e tutte le cose che ad esso hanno fatto da sfondo, con una nostalgia soffusa, che si mescola al sorriso.

Perché sì, di tutto quello che egli rimpiange non può fare a meno di sorridere.

La malinconia maggiore dei versi deriva proprio da questo accento ironico, dalla tristezza di non saper più godere delle buone cose, dei sentimenti e delle sensazioni offerte dal passato, d’essere condannato dalla propria cultura e dal proprio gusto a non avere più fede negli affetti modesti, anzi a sorridere di ogni ideale, per piccolo o grande che sia.

Dietro questi amari sorrisi, si cela la tristezza di un’anima che non sa, che non vuole o che non può rassegnarsi ad essere scettica. Ma dall’alternarsi continuo dell’ironia e della commozione, dal tono volutamente dimesso, dagli accenti monotoni, derivano una musica ed una suggestione dei versi che sono inconfondibili e Felìcita, nella sua modestia e nella dimensione così “normale” della sua esistenza, resta, per il poeta e per noi, una sorta di miraggio malinconico nel deserto della vita, al quale tutti rivolgiamo un poco lo sguardo, con un sentimento ambivalente e strano, forse sperando che non si dissolva del tutto.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.

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