Una fantastica avventura

Oggi raccontiamo un po’ di lui. Ci farà bene, con l’inizio del nuovo anno, pensare al futuro, far riposare la mente e farla viaggiare lontano dalle convulsioni di un presente che sicuramente vorremmo migliore.

Allora, diamo via libera alla nostra fantasia e un po’ anche ai nostri sogni, alle avventure che non abbiamo vissuto e a quelle che vorremmo tornare a vivere, ai nostri ricordi di gioventù e ai nostri rimpianti di un passato che nel bene e nel male ci ha dato quello che poteva darci e ciò che ognuno di noi poteva o è riuscito a prendere.

Parliamo un po’ di Hugo Pratt, uno dei grandi maestri del fumetto, per qualcuno davvero il più grande.

Nel corso della sua vita ha viaggiato tantissimo, mantenendo per sempre un rapporto particolare con la sua città di elezione e di adozione: Venezia. Il suo grande amore per la letteratura, per il viaggio e l’avventura gli ha consentito di creare personaggi fantastici e indimenticabili, destinati a lasciare un segno profondo nella storia del fumetto e del racconto grafico e un posto di rilievo nel cuore di tanti lettori.

Fra questi il mitico Corto Maltese, il marinaio protagonista di tante avventure più o meno esotiche, cui fanno spesso da contorno, da sfondo, da comprimari o da comparse, vicende realmente accadute e personaggi realmente esistiti. Un eroe moderno che incarna un po’ lo spirito dell’autore ed il suo senso dell’avventura e del racconto.

Hugo Pratt nasce a Rimini nel 1927, ma vivrà la sua infanzia a Venezia, a contatto con il vento e con il mare. Suo nonno era un francese emigrato in Italia, anche lui personaggio un po’ scomodo e controcorrente, molto noto nella Venezia del primo dopoguerra. Il papà Rolando si trasferì in Africa per lavoro, nel 1937 e l’anno successivo la moglie e il figlio Hugo si trasferirono anche loro ad Addis Abeba, in Etiopia.

 Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale, anche l’Africa Orientale fu sconvolta dalla guerra ed il papà di Hugo, fascista catturato dagli inglesi, morì in prigionia mentre Hugo e la mamma furono internati in un campo di concentramento inglese, sulla strada tra Addis Abeba e Gibuti. L’esperienza della prigionia contribuì molto alla formazione del carattere di Hugo Pratt. Ogni mattina, racconta la sorella, il sole lasciava filtrare i suoi raggi attraverso i buchi lasciati sulle baracche dai proiettili dei combattimenti. Faceva un caldo spaventoso e non pioveva mai. Due anni di sabbia e salnitro, di afa torrida tra mosche, scorpioni e sentinelle senegalesi.

Nei primi mesi del ’43 terminò la vicenda africana della famiglia Pratt e questa, insieme ad altri prigionieri, ritornò in Italia, con una delle famose Navi Bianche. Ma per Hugo non era finita. Terminata una vicenda, se ne apriva un’altra e il giovane sedicenne, ma con un fisico più sviluppato dei suoi coetanei, fece carte false per arruolarsi, dopo l’8 settembre, nel Battaglione Lupo della X MAS, come fante di marina, mentendo spudoratamente sulla sua età. Fu la madre, disperata, a rivelare ai militari gli anni effettivi del figlio e a riprenderselo per riportarlo a Venezia. Ma anche questa breve esperienza contribuì a far crescere nel giovane Pratt quel senso di ribellione al conformismo dilagante e alla perdita di punti di riferimento ideali.

Nell’immediato dopoguerra si adattò a fare da interprete per le forze di occupazione inglesi, ma soprattutto riuscì a viaggiare in Europa cominciando così a conoscere altri paesi. Nel 1949 partì alla volta dell’Argentina giustizialista di Juan Domingo Peròn e della moglie Evita che avevano aperto le porte a emigranti, esuli e fuggitivi dall’Europa e dalla guerra da poco finita. In Argentina ebbe occasione di frequentare i reduci delle guerre perdute, italiani e tedeschi in fuga, collaborazionisti croati, anarchici sopravvissuti ai massacri stalinisti in Catalogna e alla dura repressione delle forze nazionaliste al termine della guerra civile spagnola. Una miscela di reietti, di sconfitti, di senza patria con alle spalle storie individuali e ricordi recenti a volte solo tristi, a volte, invece, orribili e disperati, spesso davvero incredibili anche se terribilmente veri…

E fu proprio durante il suo soggiorno in Argentina, durato 13 anni, che Hugo iniziò l’attività di disegnatore, dando forma grafica ad uno stile destinato nel tempo a fare scuola.

In un’intervista di molti anni dopo dirà di aver avuto a vent’anni la fortuna di scoprire Borges, la cui notorietà sarebbe arrivata in Italia molto più tardi e di avere avuto la possibilità di avvicinarsi a nuovi scrittori anche grazie agli incontri con i tanti fuoriusciti europei:Ci si ritrovava tutti insieme da emigranti – dirà – diventavamo compagni di lavoro ed era interessante trovare insieme un andaluso, un libanese, un francese, un italiano, un inglese, un ebreo e si componeva così una sorta di società acculturata che amava discutere, immaginare, e anche sognare.

Poi il ritorno in Italia, anche qui con la frequentazione delle solite compagnie un po’ emarginate, un po’ border line, si direbbe oggi, un po’ sulfuree, tutte al di fuori dei circuiti in doppio petto e dei circoli cosiddetti per bene del soffocante conformismo dominante.

Nel ’52 il primo matrimonio con la jugoslava Gucky e poi il ritorno a Venezia dieci anni dopo, con la sua seconda moglie.

Nel 1965 iniziò a collaborare con il Corriere dei Piccoli, poi andò a Genova a lavorare con l’editore Fiorenzo Ivaldi e dopo ancora viaggi: in Etiopia, alla ricerca della tomba del padre, in Brasile, in Lapponia, in Kenya.

Rimasto senza lavoro in Italia, riallacciò i rapporti con Geoges Rieu da lui conosciuto al Festival del Fumetto del 1969 a Lucca e da quest’ultimo ebbe un’offerta di collaborazione a Parigi, dove si recò immediatamente, iniziando nuove avventure grafiche e frequentando anche lì personalità letterarie che la cultura ufficiale teneva a debita distanza, scrittori maledetti che avevano tanto da raccontare e poche occasioni e possibilità per farlo. Restò nella redazione del periodico Pif Gadget fino a quando l’editore – vicino al Partito Comunista Francese – non lo criticò per essere troppo libero e non allineato ideologicamente. Lasciò allora la rivista insieme ad altri redattori che decisero di non sottostare ai condizionamenti ideologici che si voleva loro imporre e cominciò a collaborare con la rivista Tintin.

E intanto crescevano l’apprezzamento del pubblico ed il riconoscimento della sua arte e del suo modo di raccontare attraverso il fumetto; cresceva la popolarità dei suoi personaggi, destinati ad entrare nella storia di questo particolare e suggestivo modo di raccontare.

Nel 1983 iniziarono le famose pubblicazioni mensili di Corto Maltese, il protagonista indiscusso dei suoi racconti, diventato da tempo già beniamino di un pubblico sempre più numeroso di affezionati estimatori.

Il successo cresce e diventa esponenziale e con la fama iniziano subito le manovre di quelle ben identificate correnti letterarie e di pensiero politicamente corretto, supponente e presuntuoso che prima lo avevano messo ai margini e sminuito in ogni modo. Ma Hugo non ci sta e giudica semplicistico e sospetto questo capovolgimento di fronte da parte di chi prima lo criticava e tale da non dover assolutamente essere preso in considerazione.

Così vanno le cose, e in particolare così sono sempre andate le cose in Italia.

Ma Hugo Pratt, con il suo vissuto e con le sue storie controcorrente cosa poteva avere in comune con quei guru nostrani, depositari di un conformismo paludato? Che aveva da spartire con chi si nutriva solo di miti incapacitanti dal vago sapore terzomondista, ma sempre saldamente ancorati alle parole d’ordine di un radicalismo sociale fatto di citazioni declamate nei salotti chic della buona borghesia, lontani anni luce dalla vita reale e dalla effettiva capacità di sognare e progettare mondi diversi e migliori?

Eppure il Nostro non volle mai occuparsi di politica nella comune accezione del termine, anzi se ne tenne sempre a distanza, lontano tanto dalla destra quanto dalla sinistra e da tutte le loro sfumature cromatiche. Preferiva vivere intensamente e raccontare in libertà totale le sue storie di uomini e mondi.

Morirà nel 1995, dopo essersi trasferito in Svizzera con la sua enorme biblioteca di trentacinquemila libri. E lì è rimasto.

E proprio a un grande scrittore svizzero dobbiamo il giudizio che meglio ci aiuta a cogliere l’essenza del lavoro artistico di Hugo Pratt. Le parole sono di Jean Jacques Langendorf, autore di veri piccoli cammei letterari, tra cui il bellissimo e poco conosciuto racconto intitolato Una sfida nel Kurdistan. Ben venga, dice Langendorf, la polemica su Hugo Pratt,fascista con o senza virgolette – ma soprattutto ben venga – la polemica sulla natura dell’avventuriero. Sartre ha opposto l’avventuriero al militante, chi mette in causa sé stesso e chi si impegna per gli altri. Nel primo, Sartre vede l’incarnazione del male, nel secondo quella del bene. Ma è giusto attribuire alla figura dell’avventuriero queste etichette così scontate e fuorvianti? Se la narrazione di Pratt è così viva è perchè è piena di avventurieri. Che cosa c’è infatti di più noioso dell’universo morale del militante, ci dice Langendorf? E credo che abbia ragione. Senza scomodare la figura dei grandi avventurieri che hanno fatto parlare di sé ed hanno contribuito a far nascere passioni e suggestioni letterarie ed esistenziali ed ai quali Hugo Pratt si è spesso ispirato nei suoi racconti, c’è tutto un mondo di gente comune che noi non conosciamo e che ha fatto scelte di vita diverse, distanti e forse poco comprensibili. Ma le hanno fatte e di loro poco o niente sappiamo, ne abbiamo perse le tracce e spesso sono stati loro stessi a cancellarle.

A Hugo piaceva molto questa umanità, ne sono certo e chissà con quanti di questi sconosciuti ora sta a raccontare e ad ascoltare storie vere e straordinarie, ridendosi addosso, magari davanti ad un buon bicchiere di birra, dovunque ora si trovino, lassù, tra quelle stelle che noi non sappiamo più guardare.

Michele Chiodi, già dirigente di istituti finanziari, collabora con periodici e associazioni culturali.

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