È la notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941: il sommergibile Scirè lascia in acqua, a due km dal porto di Alessandria d’Egitto, importante base navale inglese, tre mezzi subacquei, gli S.L.C. (siluri a lenta corsa), comunemente chiamati, per la forma tozza, maiali. Questi siluri elettrici, inventati dagli italiani, lunghi 7,30 metri e con velocità massima di 5 km orari, sono montati da due uomini ciascuno e dotati di un motore silenzioso il cui scopo è entrare nel porto per far saltare le navi alla fonda, scivolando a 15 metri di profondità.
I tre gruppi superano gli sbarramenti e le reti che proteggono la baia, sfuggono anche alle bombe di profondità che la Marina inglese getta ad intervalli sott’acqua per prevenire assalti da parte di eventuali sabotatori e finalmente si trovano al di là delle difese del Porto: obiettivo della missione è affondare due corazzate, la Valiant e la Queen Elizabeth e altre navi, piazzando sotto la chiglia gli esplosivi.
Il gruppo più famoso, anche per i film che sono stati girati sull’impresa (I 7 dell’Orsa Maggiore e L’Affondamento della Valiant), è quello composto dal tenente di vascello Marchese Durand de la Penne e dal palombaro Emilio Bianchi: i due uomini sono vicini alla Valiant, quando Bianchi ha un malore per il cattivo funzionamento del respiratore ed allora Durand de la Penne trascina da solo, spingendolo a braccia, il maiale sotto la nave. Dopo un grande sforzo riesce a collocare l’esplosivo, ma esausto dopo 5 ore in immersione emerge per respirare quando viene visto dai marinai della Valiant e catturato insieme a Bianchi: gli Inglesi cominciano un interrogatorio per conoscere lo scopo della missione, ma i due uomini non parlano. Più tardi, 30 minuti prima dell’esplosione, Durand de la Penne chiama il comandante avvisandolo di mettere in salvo i marinai non rivelando, però, l’ora ed il posto in cui ha messo le bombe: il Comandante ordina di portare i due uomini nel pozzo delle catene, sotto la linea di galleggiamento della nave, sperando che i due incursori, intimoriti dallo scoppio, finalmente parlino. Dopo poco avviene l’esplosione e i due uomini si salvano, insieme ai marinai, che erano pronti all’evacuazione.
Contemporaneamente si odono gli scoppi delle bombe collocate dagli altri due gruppi sotto la Queen Elizabeth e le altre navi, che vengono affondate o danneggiate: un gruppo sarà catturato subito, mentre l’altro sarà preso più tardi a terra. L’Italia conferirà, nel 1945, ai sei uomini la Medaglia d’oro al valor militare: Durand de la Penne riceverà l’onorificenza dall’Ammiraglio Morgan che era il Comandante della Valiant!
Cominciarono così per loro gli anni di prigionia: Durand de la Penne fu mandato in India nei campi sotto l’Himalaya; Bianchi, invece, fu portato a Zonderwater in Sud Africa.
I prigionieri italiani presi dagli Alleati sui vari fronti di guerra: dalla Tunisia alla Libia, dall’Egitto all’Africa Orientale, circa 700.000, furono distribuiti in vari paesi del Commonwealth come il Kenia, l’India, il Sud Africa oppure in Gran Bretagna o addirittura negli Stati Uniti, perché dovevano stare lontanissimi dalle zone dove c’era ancora la guerra, in modo da evitare fughe di massa che consentissero ai soldati di tornare a combattere.
I più fortunati furono quelli portati negli USA (oltre 50.000), perché furono trattati con umanità e rispetto, lavorando nei campi o nelle fabbriche, addirittura percependo un salario e fruendo anche dell’assistenza della numerosissima comunità italoamericana. Cinquemila di loro, esperti in tecnica e manutenzione, passarono gli anni di prigionia alle Isole Hawaii, partecipando alla costruzione di opere portuali lì dove era avvenuto il grande attacco giapponese a Pearl Harbor.
Le famiglie dei militari non avevano notizie dei loro cari, li consideravano genericamente dispersi, poiché non si sapeva se dopo le sconfitte dell’esercito in varie zone di guerra erano stati fatti prigionieri oppure se erano morti.

Zonderwater, che nella lingua Afrikaans (di derivazione olandese) significa senz’acqua era una località ad una cinquantina di chilometri dalla capitale amministrativa Pretoria, dove è stato costruito il più grande campo di prigionia per gli Italiani. Dal 1941 al 1947 ne passarono 100.000, ma il Campo, che per la sua dimensione fu considerato una città prigione, ne ospitò oltre 80.000 contemporaneamente. La gestione di un numero così grande di militari fatti prigionieri sui vari fronti della guerra in Africa comportò difficoltà enormi nell’organizzazione logistica: dalla creazione di baracche alla necessità di garantire l’igiene e il vitto, non dimenticando che bisognava impegnare i prigionieri in attività che consentissero loro di passare il tempo.
Alcuni di loro tornarono a casa dopo 6 anni!
Il viaggio che gli Italiani dovevano affrontare per raggiungere Zonderwater durava quasi un mese: privi di oggetti personali e dotati solo della divisa che avevano addosso al momento della cattura, venivano imbarcati sulle navi che partivano dai porti del canale di Suez e messi nella stiva per quasi tutto il tempo con la paura di essere affondati dai sommergibili tedeschi, così come era capitato alla nave inglese Laconia, andata a fondo nell’Oceano Atlantico mentre trasportava prigionieri italiani negli Stati Uniti: di questi ne morirono circa 1400 e alla nave inglese Nova Scotia che fu affondata nell’Oceano Indiano da un U-Boat tedesco con 651 prigionieri italiani annegati.
Scendevano, poi, lungo le coste africane che affacciavano sull’Oceano Indiano per arrivare finalmente al porto di Durban in Sud Africa: sbarcati a terra venivano disinfestati e messi nei vagoni di un treno per raggiungere il campo di prigionia che distava oltre 500 Km su un altopiano desolato a più 1500 metri di altezza. In Sudafrica esistevano anche altri due campi di prigionia a Pietermaritzburg e a Worchester, molto più piccoli. Nell’ex campo di prigionia di Pietermaritzburg fu eretta la Chiesetta della Madonna delle Grazie oggi disponibile per la comunità locale, mentre l’altro ospitò prigionieri che hanno costruito la strada del passo Du Toitskloof che univa Worcester a Paarl, sulla cui vetta esiste ancora una grande croce innalzata dagli italiani.
I primi internati nel campo, nel 1941, furono alloggiati nelle tende a cono con un palo metallico al centro che potevano ospitare 8 persone. Questo palo costituiva un pericolo, infatti attirava i fulmini durante i temporali e numerosi soldati morirono folgorati: solo dopo si cominciò ad abitare in case di mattoni, grazie al nuovo Comandante del Campo, il Colonnello Prinsloo, di origine boera-sudafricana, che da ragazzo nel corso della guerra fra Boeri e Inglesi era stato anche lui in un campo di prigionia e che quindi conosceva le sofferenze della detenzione e che s’impegnò molto per renderla meno gravosa.
Con l’arrivo di altri prigionieri il Campo si ampliò molto. Furono realizzati 14 blocchi, ciascuno dei quali poteva ospitare 8000 persone, divisi in quattro campi. Alla fine i campi furono 44: una città che poteva alloggiare 112.000 persone, poco meno degli abitanti di Salerno.
I prigionieri dovevano distrarsi così da non pensare alla detenzione, al cibo insufficiente, ai tentativi di fuga o di rivolta considerato l’enorme divario fra il numero dei detenuti e i militari addetti alla sorveglianza. Man mano le condizioni di vita migliorarono grazie all’assistenza fornita dalla Croce Rossa e alla ripresa dei contatti epistolari dei prigionieri con le proprie famiglie e anche ai Comitati di assistenza composti dalle famiglie di quegli Italiani che anni prima erano emigrati in Sud Africa per lavorare nelle miniere di diamanti o d’oro.
Il Colonnello Prinsloo organizzò 15 scuole in cui 9000 soldati analfabeti impararono a leggere e a scrivere, creò campi di calcio, di tennis, di pallacanestro, di pallavolo, palestre per la scherma, laboratori artigianali, biblioteche e 22 teatri, oltre a un ospedale con 3000 posti letto.
Nel campo era rappresentata tutta l’Italia, quella più istruita che insegnava nelle scuole, quella contadina che curava gli orti per mangiare, quella sportiva che partecipava ai tornei, quella artigiana che provvedeva alle necessità del caso e anche quella politica divisa tra fascisti e monarchici.
E c’erano i delinquenti che in bande taglieggiavano i prigionieri di quelle poche cose che avevano: la più famosa era la cosca mafiosa di Don Ciccio.
La quasi totalità dei prigionieri era di giovane età per cui riuscì a sopravvivere alla dissenteria e alla fame: il cibo era scarso, due fette e mezzo di pane, mezzo litro di latte, acqua e caffè, un poco di granone macinato, poca carne o pesce in polvere. Anche se può sembrare incredibile, come racconta Leonardo Mastrippolito, figlio di in prigioniero a Zonderwater, c’era un commercio di pidocchi, infatti chi aveva questo parassita veniva ricoverato in ospedale in lenzuola fresche e vitto più sostanzioso.
Ma c’era anche un altro sistema per avere una scodella di cibo in più: partecipare alle gare sportive e fra le migliaia di internati c’erano tantissimi che avevano praticato attivamente lo sport e altri che si improvvisarono atleti e poiché per fare sport bisognava essere in forma costoro avevano l’aumento della razione di cibo.
Si svolse un vero e proprio campionato di calcio con squadre che si chiamavano Savoia, Olimpia, Juventus, Diavoli Rossi, Diavoli Neri, Tevere e tante altre nelle quali giocarono un calciatore del Torino, un altro che avrebbe giocato con la Juventus e altri bravi calciatori, seguiti da un pubblico numeroso e appassionato.
Oltre al calcio aveva molti tifosi anche il pugilato perché sul ring era presente Giovanni Manca, campione italiano dei pesi medi, che fece un incontro con un altro forte pugile cui assistettero 15000 spettatori.
Un altro personaggio che ha influito nella storia dello sport italiano è stato Ezio Triccoli, che imparò a tirare di scherma da un ufficiale inglese: alla fine della guerra tornato nella sua città, Jesi, aprì una scuola di scherma da cui sono usciti campioni che, nel tempo, hanno vinto tantissime medaglie d’oro alle Olimpiadi e ai Mondiali, come Valentina Vezzali la campionessa che ha vinto più medaglie d’oro nel fioretto individuale (tre) alle Olimpiadi.
Fu data importanza ai concerti e alla musica leggera con molti complessi che suonavano vari strumenti e due prigionieri composero una bella canzone Iolite, uno struggente tango, mentre molto attiva era la vita teatrale con gli elettricisti che producevano giochi di luce sul palco, i falegnami che allestivano le scene e con i sarti che preparavano i ricchi costumi per spettacoli ed operette come Il Conte di Lussemburgo e Addio giovinezza, in cui tutti i ruoli erano interpretati dai prigionieri, anche quelli femminili.
E poi arrivò l’8 settembre, il giorno dell’armistizio: l’Italia si arrese agli eserciti alleati.
Per i prigionieri non era ancora l’ora di tornare a casa, la guerra continuava ancora, però chi collaborava con gli ex nemici veniva sottoposto ad un regime di detenzione più blando: aveva la possibilità di lavorare fuori dal campo presso imprese agricole, in fabbrica, in attività artigianali, a volte ottenevano permessi per andare nella città più vicina. I prigionieri si divisero fra loro: chi stanco e disilluso dalla guerra era disposto a collaborare con quelle Nazioni che avevano scarsità di materiale umano avendo impegnato i propri uomini sui vari fronti di guerra, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, e chi invece, fedele al Fascismo, decise di non collaborare, preferendo continuare a vivere uno stato di detenzione più stretto: per evitare scontri tra le due parti si provvide a separare in campi diversi gli uni dagli altri.
Passarono altri anni e si arrivò alla fine della guerra, ma non tutti tornarono subito a casa: i prigionieri erano mano d’opera necessaria per provvedere al raccolto o alla ricostruzione in Paesi che avevano vinto la guerra, per cui se ne ritardò il rimpatrio.
Del resto anche l’Italia non era pronta ad accoglierli: come ricollocare 700.000 reduci (per non parlare dei 650.000 internati in Germania)? Il Paese era distrutto, il dopoguerra vedeva una nazione in ginocchio con prospettive di disoccupazione e fame, per cui bisognava assorbire lentamente i rientri: dinanzi a questo quadro desolante più di 1000 prigionieri di Zonderwater decisero di restare in Sud Africa dove c’erano molte possibilità di lavoro, A loro successivamente si aggiunse qualche altro migliaio di ex prigionieri che vi tornarono per iniziare delle attività, essendosi scontrati con la disastrosa situazione economica che avevano trovato al loro ritorno in Italia.
Tutti hanno collaborato, con fortuna, al progresso economico del Paese, dove ancora oggi le loro famiglie sono presenti con manifestazioni e cerimonie a Zonderwater per ricordare le sofferenze dei loro padri e per onorare i 252 morti in prigionia che riposano in un piccolo cimitero dove la prima domenica dopo il 4 novembre viene reso omaggio al loro sacrificio dalle locali Autorità italiane. La cura del cimitero è affidata al Consolato generale di Johannesburg, che rilascia il permesso per la visita.
Nel 1947 si concluse finalmente il rientro: una gioventù intera, che aveva perduto gli anni della propria giovinezza, ritornò a casa, accolta dall’amore dei propri cari, ma estranea ad un Paese che voleva dimenticare la guerra.
Nella Commedia di Eduardo De Filippo Napoli milionaria, il protagonista Gennaro Iovine cerca di raccontare le peripezie che ha dovuto affrontare dopo la fuga dal campo di prigionia per tornare a Napoli, ma nessuno lo vuole ascoltare: Stetteme tre giorni senza mangiare e senza bevere ‘nu surzo d’acqua, sette persone. e va buo’ don Genna’, nun penzate a malinconie…Mo’state mmiezo a nuie ca ve facimmo scurda’ tutte cosa. Avit’ ‘a mangià avit’‘a bevere e v’avite ‘ngrassà nu poco pecchè ve site sciupate abbastantamente.

Sergio Giaquinto, Giurista, già Dirigente Amministrativo dell’A.O. dei Colli, cultore di Storia e Archeologia